C’è posto per i ricercatori nella comparative effectiveness research?

Luciana Ballini

Agenzia Sanitaria e Sociale Regionale, Regione Emilia-Romagna


L’invito dei sostenitori della ricerca traslazionale ad investire in risorse, formazione e infrastrutture per la ricerca, finalizzata al superamento dei blocchi all’utilizzo dei risultati scientifici nelle scelte e decisioni assistenziali, sembra essere stato raccolto e si avvicina l’attuazione di questi programmi grazie alla formula della comparative effectiveness research (CER).
La CER viene così definita dall’Institute of medicine (IOM) la produzione e sintesi di evidenze che confrontano i benefici e i danni di metodi alternativi per prevenire, diagnosticare, trattare e monitorare una condizione clinica o per migliorare l’assistenza. Lo scopo della CER è fornire risposte a consumatori, professionisti sanitari, acquirenti e responsabili di politiche sanitarie su quali interventi sono maggiormente efficaci, per quali pazienti e in quali situazioni, aiutandoli ad assumere decisioni informate in grado di migliorare l’assistenza sia a livello individuale che di popolazione.
Le sue caratteristiche principali quindi consistono nell’avere come destinatari i decisori di scelte assistenziali, sia nella pratica clinica che nella politica sanitaria; nel mettere a confronto almeno due interventi alternativi tra loro; nell’analizzare sia i benefici che i danni in popolazioni e sottopopolazioni di pazienti; nell’ esaminare i risultati nella pratica assistenziale e nell’utilizzare metodi e fonti di dati congruenti con le informazioni necessarie alle decisioni in esame. Alla base dell’interesse per la CER ci sono due motivazioni principali: la speranza che essa possa identificare modi per ridurre la spesa sanitaria e il fatto che gran parte della ricerca al momento non risponde ai bisogni dei decisori.
L’American recovery and reinvestment act ha destinato una somma senza precedenti – più di un miliardo di dollari – ad un nuovo programma per la valutazione dell’assistenza sanitaria e ha avviato un processo pubblico molto complesso per la selezione dei temi e l’assegnazione delle risorse, al fine di assicurare che le scelte siano determinate dallo stato di incertezza e non dai costi. La normativa infatti ha istituito il Federal coordinating council for comparative effectiveness research e affidato all’IOM la responsabilità di uno studio per la identificazione dei temi prioritari. Mentre il primo ha organizzato tre audizioni pubbliche, i cui risultati preliminari sono stati divulgati e sottoposti a commenti pubblici attraverso il sito internet, l’IOM ha istituito una consultazione aperta invitando il pubblico a nominare i temi per la ricerca. Dalle 1546 proposte sono scaturiti i 100 temi di ricerca prioritari che, suddivisi in quartili di 25, sono stati resi pubblici insieme alle 10 raccomandazioni per lo sviluppo di un robusto programma nazionale di CER. Poiché gli strumenti e i metodi disponibili per la prioritarizzazione della ricerca sono ancora altamente imperfetti, si è cercato, con questo imponente procedimento pubblico, di conferire accettabilità al programma tramite il coinvolgimento di pazienti e professionisti, piuttosto che di rappresentanti del governo o di società assicurative. Il miliardo e cento milioni (suddivisi tra l’AHRQ, l’NIH, l’IOM e il Secretary of Health) dovranno finanziare studi clinici pragmatici di efficacia comparata, registri e reti di banche dati nazionali, revisioni sistematiche comparative e lo studio di metodologie per la ricerca. 
Con il termine del processo di scelta dei temi prioritari sta per essere avviato quello dell’assegnazione dei fondi ai progetti di ricerca e, in un articolo pubblicato lo scorso marzo sul NEJM, vengono proposti i seguenti “cinque prossimi passi” per la messa in pratica del programma da tre autori, due dei quali hanno ricoperto un ruolo importante nella prima fase di sviluppo del programma1.
1. Nella fase attuativa del programma nazionale di CER i fondi non dovrebbero essere assegnati alle proposte scientificamente più robuste, destinate a provenire da singoli ricercatori, che in questo modo avrebbero un ruolo dominante nel definire l’agenda della ricerca. Il programma nazionale stesso dovrebbe invece definire il portfolio della ricerca, includendo fondi per le infrastrutture e studi di implementazione e adozione dei risultati della ricerca. Proseguire con il coinvolgimento della popolazione nella formulazione della fase attuativa è la migliore garanzia per una ricerca utile alle decisioni che interessano i pazienti.
2. Il programma dovrebbe valutare lo stato attuale della conoscenza relativo ai temi individuati come prioritari, identificando i ‘vuoti’ di evidenze e indicando le carenze e i bisogni di ricerca primaria.
3. Il programma, con l’aiuto di esperti, dovrebbe scegliere i metodi di ricerca più appropriati a colmare i vuoti di evidenze, e non delegare la scelta della metodologia ai ricercatori. È responsabilità del programma far collimare i quesiti di ricerca con i metodi di indagine e decidere su quali quesiti di ricerca investire, attraverso la modellizzazione dei costi della ricerca e i guadagni presunti dai potenziali benefici ottenuti. Questo richiede ai decisori di saper individuare i livelli di incertezza e di certezza che condizionano le decisioni.
4. L’agenda della ricerca dovrebbe essere bilanciata rispetto a argomenti, esiti e destinatari dei risultati, destinando le risorse a produrre evidenze sufficienti a risolvere l’incertezza che influenza le decisioni, e non assegando fondi, fino al loro esaurimento, ad argomenti ordinati per importanza.
5. Il programma deve poter valutare il progresso della ricerca e prevedere una rendicontazione pubblica del processo e dei risultati attrezzandosi con studi osservazionali di larga scala e sistemi di valutazione di impatto della ricerca sulla pratica clinica e sugli esiti di salute dei pazienti.

I ‘cinque passi’ sono dichiarazioni decise che richiedono infrastrutture complesse quanto quelle già destinate all’identificazione degli argomenti prioritari. L’individuazione dei vuoti di conoscenza, il corretto bilanciamento del programma e la tracciabilità dell’impatto della ricerca sono concetti innovativi per la comunità scientifica, spesso insofferente verso la concezione utilitaristica e strumentale della scienza. Ma allarmante per i ricercatori, probabilmente, è la poco velata dichiarazione di sfiducia nei riguardi della loro capacità di proporre progetti di ricerca rilevanti e di utilizzare metodi di indagine appropriati (punti 1 e 3).
Senz’altro appare bizzarro che nel momento in cui si assegnano ingenti risorse alla ricerca, riponendo grandi aspettative sulla capacità della scienza di contribuire al benessere collettivo, si voglia delimitare il ruolo dei ricercatori, ritenendoli incapaci di condividere i bisogni e i quesiti della collettività.
A causare la crescente diffidenza nei riguardi dei ricercatori di professione sono gli innumerevoli casi di doppie pubblicazioni, di conflitti di interesse non dichiarati, di pubblicazione di soli risultati positivi o di selezione a posteriori degli esiti degli studi, che complicano il lavoro delle revisioni sistematiche e costringono al continuo riesame delle guide alla rendicontazione e valutazione della qualità degli studi. A poco possono valere i richiami al valore della serendipity, di fronte ad una attività che, diventando mestiere, sembra aver perso la passione.
La ricerca è però di fatto un lavoro, come lo dimostra la questione dell’utilizzo della metodologia appropriata e adeguata al quesito di studio e il fatto che la scelta dei metodi debba essere riconducibile a regole esplicite e condivise. I fondi dedicati allo sviluppo di metodologie in grado di affrontare i quesiti della comparative effectiveness research testimoniano la consapevolezza del cammino da percorrere. Numerosi articoli di sostenitori della CER sottolineano che gli studi di sicurezza e di effectiveness richiedono soluzioni ai pericoli della misclassificazione dell’esposizione o degli esiti, mentre gli studi osservazionali necessitano di tecniche innovative di controllo dei confondenti e dei bias di selezione. La stessa AHRQ, in risposta alle critiche degli stakeholder invitati a commentare le revisioni degli studi riportate sul sito web, ha pubblicato nel numero di fine marzo del Journal of Clinical Epidemiology una serie di articoli guida che affrontano i problemi della formulazione del quesito di ricerca, della valutazione degli effetti avversi e della classificazione della forza delle evidenze. Eppure l’invito è di non affidare la scelta dei metodi di studio al ricercatore, ma di far sì che utilizzi linee di indirizzo fornite da altri.
Questa lettura dei 5 passi mette in risalto una tendenza verso la separazione delle carriere nella ricerca, con la revoca ai ricercatori della scelta dei temi, dei quesiti e dei metodi. È evidente che vi è una forte tensione tra l’accademia e i sistemi sanitari che investono, con alte aspettative di ritorno, nella ricerca clinica e sanitaria. L’Inghilterra, con il programma Best research for best practice, ha scelto una strada un po’ diversa, tentando la strategia delle reti e della collaborazione tra NhS e Università, confidando che le grosse somme messe a disposizione della ricerca sanitaria applicata riescano ad attrarre i ricercatori, e che la complessa infrastruttura di supporto messa a disposizione degli ospedali contribuisca a formare una nuova classe di medici-ricercatori. 
Sarebbe certamente irrealistico, se non sbagliato, pensare di ricostruire ex novo una comunità scientifica sostituendo un sistema con un altro, o una classe di scienziati con un’altra. Tuttavia gli attuali paradigmi della ricerca non forniscono risultati fruibili dai decisori, in quanto votati alla eventuale grande scoperta, dipendenti dalla sponsorizzazione dell’industria, finalizzati ad ottenere licenze e indifferenti sia alla valutazione della efficacia non sperimentale che al confronto tra trattamenti alternativi. E questo spreco di risorse intellettuali e economiche non può gravare ulteriormente sul pubblico. Le diverse strategie utilizzate per riorientare la ricerca sono quindi un invito (o un avvertimento) ai ricercatori, affinché riacquistino la dignità di strumento per i fini di medici e pazienti, tralasciando le minacce di spreco di grandi invenzioni ancora da immaginare.