Evidence-based design e biofilia: l’influenza della medicina sulla progettazione degli ambienti di vita e di lavoro
Michael W Mehaffy

Sustasis Foundation, Lake Oswego, Oregon (Usa)

Come ha osservato la studiosa di urbanistica Jane Jacobs mezzo secolo fa, l’evidenza suggerisce che le professioni che si occupano di ambiente costruito (built environment)1 sono in generale vittime di una sorta di ‘amnesia collettiva’: incapaci di imparare la lezione empirica scaturita dai loro frequenti e continui fallimenti. Ciò può essere dovuto in parte al fatto che trattano costantemente l’ambiente costruito come se fosse un’opera d’arte e in parte alla mancata applicazione dei metodi e delle intuizioni sviluppati in modo empirico dalle moderne scienze biologiche. In particolare il campo dell’ evidence-based design, che ha avuto origine in ambito sanitario, offre un corpus crescente di metodi e intuizioni utili, incluso il riconoscimento che gli esseri umani traggono sostanzialmente beneficio dalla presenza, nel loro ambiente di vita e di lavoro, di forme e strutture biologiche (un fenomeno che si chiama biofilia). Questo approccio, insieme ai nuovi metodi ‘reciprocamente adattivi’ proposti da Christopher Alexander, teorico del design e architetto, sembrano offrire promettenti indicazioni nella direzione di un tipo di ambiente costruito più resiliente e più sostenibile.
Introduzione
La studiosa di urbanistica Jane Jacobs è stata tra i primi a criticare il moderno design ambientale più di mezzo secolo fa, esercitando una notevole influenza sul dibattito successivo. Nel suo lavoro, The death and life of great American cities (Jacobs, 1961), sosteneva che il pensiero moderno sulle città aveva sofferto di una sorta di amnesia collettiva: un’incapacità di imparare le lezioni sulla crescita e l’adattamento che erano state apprese in altri campi come le scienze della vita. Il risultato era la ripetizione di errori vecchi quasi un secolo: l’autrice cita al riguardo la costante confusione tra ordine visivo e ordine intrinseco, e l’approccio alle città come fossero opere d’arte. Come argomenta nella tesi centrale del libro, questo fallimento è stato disastroso per la vita delle città.
L’incisiva critica di Jacobs è stata ripresa da allora da alcuni importanti architetti e urbanisti, come l’architetto Rem Koolhaas che nel 2007 ha denunciato il sostanziale fallimento nella costruzione di valore nel tempo, valore ottenibile come risultato della somma degli sforzi dei progettisti di spazi urbani. Sul piano empirico, si è registrato, infatti, un rapporto svantaggioso tra guadagni e perdite conseguiti da urbanisti e architetti moderni, che possono anche aver creato alcuni oggetti d’arte singolarmente fantasiosi, a fronte però di una grande quantità di luoghi pubblici notevolmente scadenti.
Come hanno osservato molti critici, l’urbanistica moderna sembra essere impantanata in una serie di inconciliabili dottrine ex-cathedra, senza un chiaro fondamento su un approccio empirico che porti al successo nell’ambiente costruito o, addirittura, senza molta chiarezza circa quanto potrebbe rappresentare un successo.
In effetti c’è un notevole sforzo nell’ambito della teoria postmodernista della relativizzazione e della frammentazione, che determina una sostanziale incapacità di identificare almeno una definizione provvisoriamente condivisibile di qualità ambientale.
Tutto ciò appare in forte contrasto con quanto avviene nel campo dell’ecologia, dove è abbastanza evidente quando si registra un declino nella salute dell’ecosistema, nella popolazione delle specie o in altri aspetti valutabili in base a criteri oggettivi. Sfide come il cambiamento climatico hanno iniziato a dirigere la nostra attenzione sull’urgenza di confrontarsi con situazioni concrete di declino della salute dell’ambiente naturale; sembra chiaro che le stesse sfide si estendono all’ambiente costruito, all’interno del quale si determinano gli elementi che portano al cambiamento climatico, alla distruzione dell’habitat e a molti altri danni ambientali.
Ovviamente anche la scienza medica ha un semplice, impellente, bisogno di trarre conclusioni affidabili sulla salute della popolazione e sulle modalità richieste per garantirla all’interno di un ambiente complesso e caratterizzato spesso da incertezza.
Jacobs ha anche osservato che le scienze della vita si sono dimostrate molto più interessate, rispetto alle discipline che si occupano di design urbano, al fenomeno da lei definito ‘complessità organizzata’. Come scriveva nel brillante ultimo capitolo del suo libro The death and life of great American cities, la complessità organizzata è il fenomeno per cui un certo numero di variabili interagisce, ed è molto difficile individuarne i rapporti causali e il modo con cui tali variabili condizionano gli esiti finali. E tuttavia le scienze biologiche hanno trovato modi efficaci per confrontarsi con la complessità organizzata.
Oggi stiamo quindi imparando dai nostri colleghi delle professioni mediche come prendere decisioni prescrittive, vale a dire decisioni in merito alla progettazione degli spazi, e come migliorare la salute e il benessere degli esseri umani negli ospedali e in altri luoghi. Si tratta di vere e proprie lezioni di evidence-based design e di ‘biofilia’, delle quali ora tratterò.
Le lezioni della scienza medica
I medici si sono sempre preoccupati della struttura dell’ambiente del paziente per ragioni ovvie: in certe condizioni le malattie si trasmettono facilmente, in altre molto meno. Per questo i pazienti sono ricoverati in stanze da due, o singole, oppure in stanze con piastrelle su pareti e pavimenti o in stanze con sistemi di aerazione speciali. Anche reparti e corsie sono progettati avendo in mente il controllo di vettori patogeni.
Con il progredire delle ricerche sull’ambiente dei pazienti, si cominciarono a osservare ulteriori fattori che esercitavano un’influenza sulla salute. Alcuni pazienti sembravano avere decorsi migliori quando soggiornavano in stanze con una migliore vista sull’esterno. Roger Ulrich lo dimostrò per la prima volta empiricamente con uno studio divenuto un classico. Su un lato di una corsia di un reparto di chirurgia la vista dava su un bel paesaggio con alberi; l’altro lato della corsia dava su una parete vuota. I pazienti furono distribuiti casualmente nei letti della corsia. Ulrich dimostrò che i pazienti sul lato con la vista sull’ambiente esterno avevano una morbilità inferiore, tempi di recupero inferiori e minor bisogno di antidolorifici (Urlich, 1984).
Altri fattori cosiddetti ‘biofilici’ sono stati presto identificati: alcuni fattori intuibili in base al senso comune (ma fino a quel momento non ancora misurati) come la luce del sole, l’aria fresca, l’acqua, le piante e le forme vegetali. Diette et al (2003) hanno dimostrato che i suoni della natura e la vista di paesaggi potevano essere utilizzati per ridurre la percezione del dolore durante le broncoscopie. Steemers et al (2003) hanno dimostrato che la presenza di fattori biofilici fa sentire le persone a proprio agio tanto quanto l’aumento o la diminuzione della temperatura di uno o due gradi. Tale risultato potrebbe essere applicato per ridurre i carichi energetici per il riscaldamento e il raffreddamento degli edifici.
Il termine ‘biofilia’, il desiderio innato e istintivo di essere in presenza di forme e strutture biologiche, fu coniato dallo psicologo Erich Fromm e successivamente adottato dal biologo Edward O Wilson, che ha scritto numerosi libri e articoli sull’argomento. Su questo tema c’è ora una vasta letteratura, in continua crescita.
Il passaggio al contesto urbano
C’è voluto poco tempo perché i ricercatori estendessero il loro lavoro al di fuori dell’ambiente dell’assistenza sanitaria, cioè al resto della città, dove i pazienti continuano a vivere la loro vita, a guarire o ad ammalarsi. Se, per esempio, consideriamo medici impegnati a curare patologie cardiache, le loro cure possono dimostrarsi inefficaci se i pazienti tornano ad abitare o a lavorare in ambienti che tendono a provocare l’obesità o ad aumentare il rischio cardiovascolare: sono tali, per esempio, gli ambienti ‘obesogenici’ delle periferie americane, dove i residenti usano l’automobile per la maggior parte dei loro spostamenti, mangiano cibi ‘fast-food’ in ambienti pensati per la sola circolazione di autoveicoli ( drive through) e trovano difficile praticare regolarmente attività fisica. Swinburn et al (1999) hanno proposto un metodo per analizzare e sottoporre a una vera e propria diagnosi ambienti di questo tipo.
Balfour e Kaplan (2002) hanno osservato quanto sia importante la progettazione dei quartieri per il mantenimento della funzionalità fisica dei residenti più anziani. Frumkin (2003) ha analizzato una vasta letteratura sui collegamenti tra ambiente costruito e salute.
Nel 2003 Richard J Jackson, che aveva partecipato all’unità ‘Healthy Cities’ dei Centers for Disease Control e successivamente è stato assessore alla salute della California, ha curato un’edizione speciale dell’American Journal of Public Health sull’influenza dell’ambiente costruito sulla salute pubblica. Il numero speciale della rivista considerava un ampio spettro di ricerche sugli effetti di lungo periodo sulla salute derivanti dall’adozione di stili di vita appropriati (camminare, andare in bicicletta, etc.), dalla promozione della salute mentale e della salute in età infantile, nonché dallo sviluppo di forme urbane più sostenibili (smart growth).
Molti ricercatori hanno riconosciuto l’importanza dei fattori biofilici. Roger Ulrich (hià citato prima per lo studio sugli effetti sulla salute della vista sull’ambiente esterno) ha svolto un ruolo chiave nell’ampliare il concetto dall’ambiente dei pazienti al più ampio contesto urbano. Il suo importante studio sullo stress e il pendolarismo, svolto con altri collaboratori (Parsons et al, 1998) – che dimostrava come i livelli di stress causati dal pendolarismo verso e da periferie urbane degradate erano responsabili di malattie degli impiegati, compromettendone sistema immunitario e produttività – ha destato l’interesse di politici e imprenditori.
Altri ricercatori hanno da tempo osservato l’importanza dello sviluppo di nuove preferenze per caratteristiche ambientali quali ‘il panorama’ e ‘il rifugio’. Grant Hildebrandt, nel libro The origins of architectural pleasure (Hildebrandt, 1999), mostra come molte di queste caratteristiche siano potenti ingredienti di una progettazione urbana di successo.
Va notato che alcuni osservatori hanno utilizzato tali risultati per sostenere un’urbanistica ‘verde’, e perfino per la creazione di periferie ‘leafy’ con una bassa densità di popolazione. La ricerca non si riferisce solo al verde in senso letterale, ma anche a una geometria dell’ambiente che abbia le sue radici nella biologia. Ciò può includere qualità frattali, qualità di varietà e di scala, equilibri tra ordine e disordine, e via dicendo. Tali attributi possono essere presenti in ambienti urbani ad alta densità di popolazione e, per contro, essere assenti in periferie meno densamente popolate.
Le ricerche in questo campo sono sempre più numerose e vanno incoraggiate perché contengono una lezione cruciale per raggiungere l’obiettivo di avere ambienti costruiti più sostenibili. Se vogliamo che le persone vivano in quartieri a basse emissioni di anidride carbonica e a efficiente utilizzo di risorse, queste stesse persone devono voler vivere in tali ambienti, e continuare a viverci per molti anni, al di là dei cambiamenti della moda, della cultura e della tecnologia.
Ma questa è una lezione di sostenibilità che deve ancora attecchire nella mentalità della maggior parte dei professionisti di progettazione ambientale. L’attenzione rimane ancora troppo concentrata sulle nuove tecnologie, proposte secondo design alla moda, la cui efficacia non è stata verificata, senza strategie specifiche per andare incontro ai mutamenti ciclici del gusto (che potrebbero comportare edifici abbandonati e progetti falliti) o con conseguenze non volute (che potrebbero comportare sistemi falliti e spreco di risorse). Effettivamente c’è la preoccupante evidenza che molti degli attuali sforzi per la sostenibilità ottengano risultati molto al di sotto delle aspettative, e sembra che il peggio debba ancora venire. Di nuovo, si sente l’eco di passate fantasie utopistiche con l’architettura vista come panacea. L’amnesia collettiva continua.
Prospettive future dell’evidence-based design 
e della biofilia
La ricerca in questo campo, allora, può indicare la strada per un approccio impostato su una maggiore resilienza, più ‘biologico’. Ma un lungo elenco di risultati della ricerca, per quanto interessanti, da solo non basta. È lunga la strada che porta dalla creazione di un ambiente urbano composto da elementi sperimentabili singolarmente (come la ‘presenza di acqua’ o una ‘rete di strade percorribili a piedi’) a un ambiente urbano pienamente realizzato, con tutta la sua complessità e ricchezza. La ‘complessità organizzata’ di Jacobs non è una semplice aggregazione di parti testate una ad una, ma un sistema le cui parti interagiscono in una complessa serie di modelli.
Proprio per gestire una progettazione ambientale tanto complessa, Christopher Alexander sviluppò il suo sistema di progettazione dei ‘pattern languages’ (Alexander, 1977). Quel sistema, originariamente pensato per il design architettonico e urbanistico, ha avuto molto più successo nell’applicazione nelle scienze informatiche e in altri campi (infatti tutti gli iPhones usano la tecnologia dei pattern languages, come anche tutti i computer Mac e la maggior parte dei giochi, incluso Sim City e molti altri; Ward Cunningham, l’inventore dei Wiki, ha anche riconosciuto direttamente che i pattern languages di Alexander hanno ispirato il suo lavoro).
Inoltre gli studi condotti da Alexander sui pattern languages sono stati sviluppati grazie ai finanziamenti del National Institues of Mental Health, di nuovo, per migliorare gli ambienti dedicati all’assistenza sanitaria. Alexander e i suoi collaboratori erano profondamente influenzati dalle teorie sulla ‘falsificabilità’ di Karl Popper e intuivano che i pattern dovevano essere proposizioni testabili singolarmente, ma, allo stesso tempo, dovevano poter essere combinati in sistemi assemblati molto più complessi, simili a quelli che regolano il linguaggio, tali da poter essere essi stessi, a loro volta, verificati come pattern.
Alexander e collaboratori hanno quindi cercato lo strumento con cui proposizioni di biofilia verificabili singolarmente potessero essere verificate dall’evidenza, e usate per generare un design che fosse mutuamente adattivo e multisistema nella sua struttura. Ciò corrisponde proprio al concetto di ‘complessità organizzata’ di Jane Jacobs, ovvero il fondamento di un approccio al design più biologico ed evolutivo.
In questo senso la scienza medica sta ispirando la più recente pratica del design circa il ruolo delle valutazioni qualitative sulle modalità secondo cui le cose funzionano e secondo cui potrebbero essere migliorate. Questo era, naturalmente, proprio il cuore del lavoro di Jane Jacobs “sulla morte e la vita delle grandi città americane”. È arrivato il momento di una realizzazione più completa di queste idee originali.


Note
Autore per la corrispondenza
Michael Mehaffy, michael.mehaffy@gmail.com

1L’ambiente costruito è un neologismo che definisce l’in­sieme delle realizzazioni umane che trasformano l’ambiente naturale, rimodellandolo secondo le esigenze umane.



Bibliografia
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Balfour JL, Kaplan GA (2002), Neighborhood environment and loss of physical function in older adults: evidence from the Alameda County Study, Am J Epidemiol, 155: 507-515.
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Swinburn B, Egger G, Raza F (1999), Dissecting obesogenic environments: the development and application of a framework for identifying and prioritizing environmental interventions for obesity, Prev Med, 29: 563-570.
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