Segnalazioni


The changing model of big pharma: impact of key trends
Gautam A, Pan X
Drug Disciv Today 2016; 21: 379-384

Negli ultimi vent’anni le continue sfide alla produttività in declino, la transizione dei modelli commerciali e la crescita dei mercati emergenti hanno trasformato l’approccio al mercato delle grandi aziende farmaceutiche.
La richiesta continua e crescente di nuove terapie, la scadenza dei brevetti, gli ostacoli normativi, le politiche sui prezzi e sui rimborsi, i costi per gli investimenti in Ricerca & Sviluppo (R&S) hanno spinto queste aziende a rinnovare le loro strategie per rimanere competitive.
Contrariamente al modello di azienda farmaceutica in auge negli anni Novanta e nei primi anni Duemila, orientato alla creazione di hub globali, le aziende attuali si basano sull’idea di un tipo di azienda snello, intento a conquistare nuove fette di mercato con la ricerca di prodotti innovativi.
I dati analizzati dai due autori considerano vari elementi, quali la percentuale di ricavi ottenuta dai prodotti biologici, quella invece legata alle cure primarie e specialistiche, i processi di fusione e acquisizione di altre aziende, i tassi di crescita della produttività regionale, l’attività di ricerca a impronta globale, le entrate economiche derivanti dal mercato consolidato (Usa, Europa e Canada) e dall’emergente (Asia, America Latina, Russia, mercati mediorientali e africani).
Le fonti di dati analizzate sono state sia pubbliche sia private (come nel caso dell’Ims Health), e hanno compreso anche i rapporti di settore delle aziende produttrici dei 12 migliori farmaci orientati all’innovazione. I dati afferiscono a due decenni, 1995-2005 e 2005-2015, affinché sia possibile comprendere i cambiamenti e le eventuali tendenze in un arco di tempo congruo: dieci anni permettono di avere una cronologia significativa rispetto al ciclo completo di ricerca e sviluppo dell’industria farmaceutica.
Dall’analisi di questi dati gli autori hanno evidenziano che le aziende si stanno rapidamente allineando in due campi distinti: (i) quello del business diversificato (Abbott, Bayer, Eli Lilly, GSK, JNJ, Merck e Sanofi), che fa proprio un mix di diagnostica, farmaci generici, dispositivi medici, farmaci innovativi e salute animale; e (ii) quello del business biofarmaceutico, con aziende come AbbVie, Astra-Zeneca, Bristol-Myers Squibb, Novartis, Pfizer e Roche, che si concentrano principalmente su farmaci innovativi.
All’interno di questi due campi, le aziende hanno adottato diverse strategie per far evolvere le loro attività: la ricerca nel settore della medicina specialistica e biologica; asset-swap per concentrarsi sulla leadership e uscire da portafogli non allineati, espansione geografica e consolidamento regionale, ristrutturazione di R&S e acquisizioni strategiche.
Le nuove sfide al mercato farmaceutico riguardano i costi e quindi la valutazione di nuove tipologie di rimborso più convenienti per i pazienti. Nuovi modelli di copertura economica dell’assistenza e prezzi differenziati si stanno già esplorando. Un esempio è la partnership di Gilead con aziende generiche indiane per permettere alla popolazione del subcontinente indiano di acquistare per la cura dell’epatite C sofosbuvir (commercializzato sotto il marchio di Solvadi) a un prezzo conveniente.
Nel settore della medicina di precisione si svilupperanno sempre di più farmaci la cui somministrazione sarà supportata da applicazioni mobili o dispositivi indossabili che aiuteranno i pazienti a monitorare i loro parametri e a gestire la loro malattia.
Quanto sarà capace l’industria farmaceutica di adattarsi a questo nuovo approccio?
È probabile che nuove aziende farmaceutiche, provenienti da Paesi quali la Cina, l’India, la Corea e il Brasile, sfideranno la leadership di lunga data degli Stati Uniti e delle società europee. Nel 1995-2005 le prime 10 aziende più grandi nei vari settori provenivano interamente dagli Stati Uniti o dall’Europa; oggi almeno la metà delle prime 10 aziende proviene dai mercati emergenti, principalmente dalla Cina. Anche se i tempi lunghi richiesti per lo sviluppo dei nuovi farmaci e gli ostacoli normativi fanno sì che il mercato sia ancora dominato dagli Stati Uniti e dagli attori europei, tra i protagonisti globali si stanno affacciando aziende giovani come Sun Pharma dall’India, Teva da Israele, Celltrion e Hanmi dalla Corea, Hengrui Pharma e Fosun Pharma dalla Cina, e EMS Pharma dal Brasile. È improbabile che tutte queste aziende avranno la forza di imporsi repentinamente sul mercato come innovatrici globali, ma entro il 2025 alcune di queste società potrebbero essere concorrenti dirette di leader globali come Pfizer, Novartis, AstraZeneca e Merck.


The influence of emerging markets on the pharmaceutical industry
Tannoury M, Attieh Z
Journal of Health Economics, Current Therapeutic Research 2017; 86: 19-22

Nel 1981, durante l’International Finance Corporation, alcuni economisti, intenti a promuovere il primo fondo di mutuo investimento nei Paesi in via di sviluppo, coniarono il termine emerging markets. Ad oggi, il termine determina un Paese in via di sviluppo nel quale l’investimento previsto potrebbe avere un alto ritorno economico a fronte di un alto tasso di rischio.
Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia, Indonesia, Corea del Sud e Turchia sono identificabili come emerging markets ed entro il 2019 per questi Paesi si prevede una crescita del 49% dei settori del benessere, includendo anche una crescita per le industrie farmaceutiche. Infatti, secondo le stime di Intercontinental Market Services, il 30% del valore di crescita del mercato farmaceutico è rappresentato dai Paesi emergenti.
Secondo l’Organizzazione mondiale della sanità, facendo un confronto tra i Paesi del G7 (Canada, Francia, Germania, Italia, Giappone, Stati Uniti e Regno Unito) e quelli di E7 (Brasile, Cina, India, Indonesia, Messico, Russia e Turchia), questi ultimi hanno percentuali di spesa sanitaria privata più alta. Nel 2011 Paesi come la Francia, la Germania, l’Italia e il Canada hanno visto una marcata stagnazione dei loro mercati farmaceutici, con una crescita non superiore al 5%.
La crescita rapida dei mercati emergenti nel settore farmaceutico è stata attribuita a diversi fattori. Il primo è rappresentato dallo scadere del brevetto di diversi farmaci di marca, che hanno dominato il mercato per decenni. Il secondo, dallo sviluppo dei farmaci generici, sia nei Paesi sviluppati che in quelli via di sviluppo, nonché dalla crescente disponibilità di farmaci biosimilari. Il terzo fattore è il cambiamento delle tipologie di malattia nei Paesi emergenti. In effetti, una delle conseguenze dell’invecchiamento della popolazione e del rapido aumento dei costi che ne deriva, è che i governi hanno incoraggiato l’uso di farmaci generici. In media, i generici costano solo il 20% del farmaco corrispondente di marca. Un recente rapporto sui servizi di mercato intercontinentali ha suggerito che le vendite di farmaci generici rappresenteranno quasi il 91% del volume totale delle prescrizioni entro il 2020. Un esempio è rappresentato dalla Tailandia, che nel 2007 ha acquistato milioni di dosi di una versione generica di Plavix (Bristol-Myers Squibb Company, NewYork, NY), fabbricato in India e venduto al costo di 3 centesimi a dose al posto dei 2 dollari a dose del farmaco originario.
Nondimeno, la prosperità e la ricchezza che accompagnano la crescita dei mercati emergenti ha incrementato abitudini e stili di vita negativi delle rispettive popolazioni (basti pensare al ricorso sempre maggiore ai fast food), facendo aumentare esponenzialmente i casi di patologie come il diabete e le malattie cardiovascolari. Secondo il report The Global Use of Medicine, nei prossimi 10 anni la prevalenza di diabete e cancro passerà dal 25% al 40%. Alcune aziende farmaceutiche si stanno adattando a questi interessanti cambiamenti: la Novartis Foundation ha lanciato un progetto di 2 anni per il miglioramento dell’ipertensione (ComHIP) con l’obiettivo di educare le persone a uno stile di vita più corretto. I mercati emergenti non sono solo interessanti come occasione di investimento, ma anche perché presentano una crescente disponibilità di reddito e di capitale umano, spesso purtroppo a basso costo, che li rende mercati importanti per l’esternalizzazione. La stessa realizzazione di studi clinici in questi Paesi è meno costosa e può ridurre in modo significativo i costi di sviluppo dei farmaci, permettendo un abbassamento dei prezzi di vendita.


Reducing the global burden of depression: a Lancet-World Psychiatric Association Commission
Herrman H, Kieling C, McGorry P et al
Lancet 2018 Oct 25. pii: S0140-6736(18)32408-5 [Epub ahead of print]

La salute mentale è parte integrante della nostra salute corporea e del nostro benessere, come si legge nella Costituzione dell’Organizzazione mondiale della sanità: “La salute è uno stato di completo benessere fisico, mentale e sociale, e non semplice assenza di malattia o di infermità”. Può essere influenzata, come gli altri aspetti della nostra esistenza, da fattori socioeconomici sui quali è necessario agire attraverso strategie globali di promozione, prevenzione, trattamento e recupero in un approccio di governance globale.
Si stima che la depressione colpisca 300 milioni di persone in tutto il mondo e rappresenti una barriera allo sviluppo sostenibile, impedendo alle persone di raggiungere il loro pieno potenziale, danneggiando il capitale umano e causando morti premature per suicidio e altre malattie. L’esordio della depressione avviene generalmente in giovane età. Una ricaduta o un decorso cronico non è raro, con effetti negativi su figli, familiari e ambito sociale in generale.
L’articolo parte dalla consapevolezza dell’aumento dell’incidenza della depressione negli ultimi decenni. Con questa ricerca gli autori riescono a porre l’accento su come la depressione abbia caratteristiche di base simili in molte culture poiché i fattori di rischio (infanzia, negligenza, traumi e violenza) e gli eventi di vita acuti (lutto o crisi finanziaria), associabili al sorgere e allo sviluppo del disturbo, sono riscontrabili per ogni individuo all’interno di qualsiasi società.
Per gli autori non meno rilevante è la constatazione del fallimento globale nell’affrontare il problema. L’ambiguità e la confusione sul concetto di depressione e lo stigma sociale associato a questa condizione sono tra le motivazioni principali di questo fallimento. Altre ragioni comprendono il ruolo svolto dalle comorbilità, la pervasiva mancanza di investimenti nell’ambito della cura della salute mentale e la scarsa capacità dei sistemi sanitari di fornire cure di qualità, la stessa domanda piuttosto bassa da parte dei pazienti depressi di ottenere una cura, e l’assenza di biomarcatori affidabili e validi.
Tra gli interventi realmente efficaci si enumerano comunque determinate terapie psicologiche, i farmaci antidepressivi, la stimolazione magnetica transcranica, la terapia elettroconvulsivante modificata e la stimolazione cerebrale profonda.
Una prospettiva a lungo termine è essenziale e l’obiettivo del trattamento non è solo quello di raggiungere la remissione a breve termine ma anche di ottenere la libertà da nuovi episodi in futuro. Una opzione può essere offerta dallo sviluppo di appropriati modelli di cura graduale, integrati da interventi che sostengono i giovani in difficoltà, donne e ragazze con o a rischio di depressione perinatale, e le persone con la cosiddetta depressione resistente ai trattamenti.
Riconoscendo l’urgente necessità di attuare interventi per ridurre l’onere globale della depressione si riconosce anche la necessità di investimenti per migliorare la qualità dell’assistenza e approcci evidence-based per la cura e la prevenzione. L’obiettivo deve essere condiviso e co-partecipato da individuo, famiglia e comunità per migliorare la domanda e l’accettazione degli interventi.
In conclusione, l’articolo evidenzia la necessità di investimenti nell’ambito della ricerca, essenziali per la scoperta di nuove forme di intervento e di sottotipi specifici di depressione e dei loro marcatori, insieme a investimenti per migliorare i servizi di assistenza in generale. Un intervento tempestivo nell’ambito del miglioramento della salute mentale può infatti salvare le generazioni future e consentire alle persone di sviluppare il loro potenziale, contribuendo così a rendere migliore la nostra società.


Australian health professionals’ statement on climate change and health
Arabena K, Armstrong F, Berry H et al
Lancet 2018; 392: 2169-2170

Questo breve articolo è una call to action, redatta dai professionisti australiani che promuovono la ricerca nell’ambito della salute e dell’ambiente. Questa azione è una risposta all’indifferenza mostrata dal governo australiano per la relazione sui cambiamenti climatici (IPCC), redatta da un gruppo intergovernativo composto da scienziati ed esperti, che comprendeva anche la raccomandazione di ridurre drasticamente l’uso del carbone entro il 2050.
Il governo australiano non è stato l’unico a dimostrare questa indifferenza.
Perché una call to action così coraggiosa da parte di questi professionisti?
L’Australia è il più grande esportatore di carbone al mondo, producendo circa il 7% del fabbisogno globale. La combustione fossile di carburante produce circa il 72% di tutte le emissioni di gas serra risultanti dalle attività umane. Per limitare il riscaldamento globale a 2 °C, a partire dal 2010 un terzo delle riserve di petrolio, metà delle riserve di gas e più dell’80% delle attuali riserve di carbone sarebbero dovute rimanere inutilizzate. Nondimeno, secondo il Global Burden of Disease del 2016, l’inquinamento atmosferico generato dalla combustione del carbone è responsabile di numerosi problemi di salute, per un totale di circa 2,5 milioni di morti.
Nessun altro Paese membro dell’Organizzazione per l’economia, la cooperazione e lo sviluppo è esposto come l’Australia a causa della sua conformazione geografica. I cambiamenti climatici stanno già amplificando la frequenza, l’intensità e la durata degli eventi meteorologici estremi come le ondate di caldo, gli incendi boschivi, la siccità e le tempeste tropicali, causando distruzioni e danneggiando i mezzi di sostentamento. Nondimeno, a causa dei processi di colonizzazione ed emarginazione, la comunità aborigena e gli isolani dello Stretto di Torres ancora presenti sul territorio australiano, esclusi dalla fruizione di beni utili alla sopravvivenza, hanno una qualità di salute molto scarsa; il cambiamento climatico non farà che amplificare queste iniquità. Anche i Paesi limitrofi sono molto vulnerabili rispetto ai rischi legati al clima, che mettono a repentaglio la salute del continente australiano.
La richiesta degli autori è che il loro governo abbracci immediatamente strategie di produzione di energia che non facciano più emettere gas a effetto serra nell’atmosfera. Senza un’azione concertata da parte di tutti, l’obiettivo della raccomandazione dell’IPCC di raggiungere emissioni nette di carbonio pari a zero entro il 2050 non sarà certamente raggiunto.


The health of Palestinians is a global responsibility
Norton R
Lancet 2018; 392:1612

L’Organizzazione mondiale della sanità (Oms) ha recentemente pubblicato un rapporto sulla situazione sanitaria delle persone che vivono nel territorio palestinese occupato. Lo studio Right to Health 2017 registra che la Striscia di Gaza è stata sottoposta al blocco aereo, terrestre e marittimo per oltre un decennio. Il suo sistema sanitario ha quindi sperimentato tutte le sofferenze dovute alla carenza di medicinali.
Nel 2017, solo il 54% delle domande di ricovero in ospedale (su un totale di 12.153 richieste) è stata soddisfatta. Questo tasso di approvazione è il più basso dal 2012. I pazienti che vivono in Cisgiordania e che chiedono l’accesso ai servizi sanitari di Gerusalemme Est o di Israele hanno un tasso di approvazione delle loro richieste dell’88% (su un totale di 39.834 pazienti). Il motivo più frequente per il quale era richiesto il ricovero era determinato dalle patologie oncologiche. Di questa percentuale, i pazienti che vivono in Cisgiordania subordinano la scelta del servizio sanitario al quale ricorrere al luogo in cui abitano. Se un paziente vive nell’Area C, che fa parte della Cisgiordania amministrata direttamente da Israele e posta sotto le restrizioni per la pianificazione degli accordi di Oslo, non ha molte alternative, poiché in questo territorio vige il blocco alla costruzione di strutture sanitarie. Deve quindi per forza ricorrere alle alternative vicine. Circa 300.000 palestinesi vivono nell’area C.
L’Oms definisce “qualsiasi atto di violenza verbale o fisica, qualsiasi minaccia o altra violenza psicologica, o qualsiasi altro ostacolo che possa interferire con la disponibilità, l’accesso, e l’erogazione di servizi di cura o prevenzione della salute” come attacco alla salute. Nel rapporto, l’Oms ha documentato nel 2017 si sono verificati 111 attacchi contro i servizi sanitari palestinesi, che hanno colpito 133 pazienti, 43 operatori sanitari, 75 ambulanze e 18 strutture sanitarie. La responsabilità di queste azioni, sempre secondo la relazione dell’Oms, è da condividere tra l’autorità palestinese e la comunità internazionale.
Al momento non esiste uno spazio neutrale che possa provvedere alla salute dei palestinesi. Il governo di Israele condivide in linea di principio la richiesta dell’Oms di impegnarsi perché anche i palestinesi della striscia di Gaza possano accedere a un’assistenza sanitaria di altissima qualità, ma la mancanza di sicurezza in vigore in questi territori e le barriere politiche ed economiche a oggi restano come impedimenti insuperabili.
Anche se diversi medici israeliani hanno dichiarato di voler collaborare con i colleghi palestinesi per porre rimedio alla drammatica situazione umanitaria in atto in Palestina, gli episodi di esplosivi nascosti nelle ambulanze hanno frenato le autorità israeliane. Questi stessi medici israeliani hanno sperato che il rapporto dell’Oms potesse aprire la strada a un processo di collaborazione tra il governo palestinese e quello israeliano sui temi sanitari, utilizzando “la salute come ponte per la pace”. La strada appare però in salita.
In conclusione, Richard Norton ricorda come lo stesso Lancet sia impegnato da tempo su questi temi con due iniziative che corrono parallele: The Lancet Palestinian Health Alleance, che prevede incontri annuali per migliorare la salute del popolo palestinese, e la serie Health in Israel, pubblicata nel 2017, che ha previsto la collaborazione con i colleghi israeliani per migliorare la salute dei cittadini di Israele.