Equità orizzontale in un contesto di federalismo sanitario: implicazioni dalla prospettiva della giustizia distributiva

Elena Granaglia

Università della Calabria e Scuola Superiore di Economia e Finanza, Roma

Riassunto. Un compito cruciale, in un contesto di federalismo sanitario, è quello di distinguere ineguaglianze inter-regionali, da considerare inique sul piano orizzontale, da ineguaglianze compatibili con l’equità. Dando per scontato il rinnovato Titolo V della Costituzione, il lavoro concentra l’attenzione su alcune risposte che possono essere offerte adottando una prospettiva di giustizia distributiva e, più in particolare, i criteri dell’eguaglianza di risorse, dell’eguaglianza di accesso e dell’eguaglianza di risultati. La conclusione è a favore di un approccio plurale che include una nozione di eguaglianza di risultati, in termini di salute e di soddisfazione dei bisogni.

Parole chiave. Equità orizzontale, federalismo sanitario, ineguaglianze di salute e nell’assistenza sanitaria, livelli essenziali di assistenza.


Abstract. The main task, within the context of health care federalism, is to distinguish inter-regional inequalities to be considered horizontally, unfair from inequalities to be considered fair. Taken for granted the normative background set by the new Title V of the Italian Constitution, the paper focuses on some of the answers that could be offered adopting a perspective of social justice. Attention, in particular, is concentrated on the principles of equality of resources, equality of access and equality of results. The conclusions favour a plural approach, based on equality of results, in terms both of need satisfaction and of health.

Key words. Healthcare devolution, horizontal equity, inequities in health and healthcare.

1. Introduzione
Uno dei compiti cruciali, in un contesto di federalismo sanitario, è quello di distinguere fra ineguaglianze inter-regionali, da considerare inique sul piano orizzontale, l’equità orizzontale richiedendo l’eguale trattamento degli eguali, e ineguaglianze compatibili con tale equità, in quanto effetto della libertà di scelta. In ambito sanitario, la risposta fornita dal rinnovato Titolo V della Costituzione (anche nel rispetto dell’art. 32) è, come noto, quella di richiedere l’eguaglianza di trattamento rispetto ai livelli essenziali di assistenza (Lea), a prescindere dalla regione di appartenenza. Al contempo, sono da ritenersi perfettamente legittime diversità regionali in livelli addizionali rispetto ai Lea e, all’interno degli eventuali vincoli posti da principi generali di responsabilità statale, nelle modalità di erogazione delle prestazioni connesse ai Lea stessi1.
Questo lavoro dà per scontato tale quadro. Assume, altresì, la piena legittimità, nel riparto delle risorse, del riferimento a costi standard. La questione su cui concentra l’attenzione è la specificazione dell’eguale trattamento che potrebbe essere effettuata assumendo il punto di vista della giustizia distributiva e, in particolare, dei tre criteri costituiti dall’eguaglianza di risorse, dall’eguaglianza di accesso a servizi/prestazioni e dall’eguaglianza di risultati. Il che mette, fra l’altro, in evidenza come l’equità, per sostanziarsi, richieda il rimando a concetti più ‘spessi’ di eguaglianza2. La conclusione è a favore di una specificazione plurale dell’eguaglianza di risultati, in termini di salute e di soddisfazione dei bisogni. La messa a fuoco delle risposte fornite dai diversi criteri può, però, essere utile ai fini della presa di decisioni più informate anche a chi dissenta da tale conclusione.
La metodologia è teorica: si esaminano accezioni alternative di eguale trattamento secondo la prospettiva della giustizia distributiva. L’attesa è che da tale esame possano derivare implicazioni pratiche per la specificazione dell’eguaglianza di trattamento rispetto ai Lea.
Alcune brevi avvertenze alla lettura. Primo, nella letteratura corrente di giustizia distributiva i tre criteri considerati sono tipicamente rivolti al piano inter-personale3. L’applicazione al piano territoriale è lungi dall’essere automatica, richiedendo, come riconosciuto più sotto, alcune congetture/estensioni, a partire dalle formulazioni originarie. L’assunto è che, senza tradirne la natura, le discussioni circa il ‘cosa’ dell’eguaglianza distributiva (ossia, equality of what? o, ancora in altri termini, quale spazio valutativo?), al cuore di quella letteratura, siano feconde anche per una riflessione su come specificare l’equità territoriale.
Secondo, l’equità territoriale è solo una delle componenti della stessa equità orizzontale. Per esempio, una situazione in cui i poveri del Sud siano svantaggiati esattamente come i poveri del Nord sarebbe equa sul piano territoriale. Sarebbe, però, iniqua qualora l’equità orizzontale sia valutata rispetto alla variabile socioeconomica, anziché a quella territoriale. Ancora, l’equità orizzontale è solo una componente della più complessiva equità. Per esempio, nel nostro paese non esiste alcuna iniquità orizzontale rispetto al divieto all’eutanasia. Ciò nondimeno, il divieto potrebbe essere ritenuto iniquo.
Terzo, rispetto alla stessa equità territoriale, l’attenzione del lavoro non solo è concentrata sulle finalità/impieghi del finanziamento pubblico, prescindendo da quest’ultimo. Anche rispetto alle finalità/impieghi del finanziamento, è concentrata unicamente sul ‘cosa’, senza toccare altre questioni cruciali relative al ‘quanto’ e al ‘chi’4. Si prescinde, altresì, dalle iniquità intraregionali, pur nel riconoscimento che queste potrebbero essere assai più pronunciate di quelle inter-regionali (cfr. Bordignon et al., 2006).
Quarto, anche in presenza di disuguaglianze territoriali considerate inique, la conclusione non è necessariamente a favore di più trasferimenti alle regioni penalizzate. La responsabilità delle disuguaglianze potrebbe, infatti, essere di queste ultime. Anche da questo tema, si prescinde in questa sede.
2. Il criterio dell’eguaglianza di risorse
L’idea di fondo, alla base di questo criterio, è che l’eguaglianza debba limitarsi ai mezzi, la cui utilizzazione sia lasciata alla libertà di scelta. Le risorse sono, appunto, mezzi la cui conversione in risultati avviene se gli individui lo desiderano. Inique, in questa prospettiva, sarebbero solo le disuguaglianze in termini di risorse. Ciò premesso, diverse possono essere le versioni del criterio.
La versione delle risorse monetarie. Le risorse possono, innanzitutto, consistere in reddito, come nella versione tipica dell’eguaglianza di risorse (Rawls, 1971; Ackerman, 1980; Dworkin, 1981a e 2000; Van Parijs, 1995). A favore del reddito giocherebbe la natura di bene primario, utile qualsiasi siano le finalità ricercate: dunque, perfettamente rispettoso delle libertà individuali.
Da un lato, è certamente vero che, pur in presenza di risorse specifiche, non vi sarebbe alcun obbligo al consumo. Dall’altro lato, però, la disponibilità di risorse specifiche implica, de facto, prediligere non solo determinate finalità, ma anche determinati assetti di cura, che potrebbero non essere condivisi. Per esempio, la minore presenza di residenze protette nel Mezzogiorno, anziché rappresentare un’iniquità, potrebbe dipendere da preferenze per la cura domestica5. Assicurare reddito permetterebbe di tenere conto di tali differenze nelle preferenze.
Presa alla lettera, l’eguaglianza in termini di reddito appare incompatibile con trasferimenti specificamente indirizzati alla tutela dei Lea, i quali, anche nella prospettiva di lista negativa e in assenza di vincolo di destinazione, costituiscono l’obiettivo alla cui soddisfazione il reddito dovrebbe essere destinato6. Al contrario, l’indicazione più coerente sarebbe la mera perequazione rispetto alla capacità fiscale: il che lascerebbe le regioni completamente libere di decidere gli impieghi7. Ciò nondimeno, appare compatibile con lo spirito del criterio anche una difesa dei Lea in termini di eguale quota capitaria monetaria, senza vincolo di destinazione.
Il reddito, a sua volta, può essere assicurato in misura non differenziata oppure differenziata.
Dotazioni monetarie non differenziate. La difesa paradigmatica di dotazioni non differenziate è offerta da Rawls (cit.). L’assunto è che differenziare comporti un contrasto inevitabile fra accezioni diverse di svan­taggio e, con esse, fra valori diversi di buo­na/cat­tiva vita.
Provando ad applicare questa indicazione all’ambito sanitario, si consideri il parametro più utilizzato per la differenziazione, ossia i bisogni (sanitari)8. Come definirli? In termini oggettivi, siano essi di morbilità a prescindere dalla gravità, oppure di morbilità associata a gravità, secondo scale di gravità alla Carlsson, basate sulla lontananza dal decesso o, ancora, seguendo Culyer (2001), sulla base della spesa necessaria a portare ciascun individuo sulla propria frontiera di salute? Oppure, occorre utilizzare una specificazione in termini soggettivi?
Osservazioni simili valgono per l’altra variabile cui, di recente, si sta attribuendo maggiore attenzione, la salute9.
Nella prospettiva della salute, si considera l’intero l’arco temporale delle attese di vita alla nascita, oppure si considerano periodi più ristretti, quali le attese fino ad una data età, secondo il principio, per esempio, del fair inning di Williams (1997), o, ancora, le attese relative alla vecchiaia? È, poi, sufficiente limitarsi al numero di anni, oppure occorre tenere conto della relativa qualità? In tal caso, ritorna la scelta fra valutazioni oggettive e soggettive, ad esempio, fra DALYs (come nella prospettiva cosiddetta del peso della malattia – burden of disease) e QALYs10.
Ancora, a prescindere dalla definizione, quali bisogni e quali combinazioni fra bisogni e salute selezionare al fine della differenziazione e quali pesi attribuire?
Di fronte ai conflitti di valore che inevitabilmente si pongono, meglio abbracciare, secondo la prospettiva della non differenziazione, non solo l’egualitarismo generale – appunto, la redistribuzione di reddito –, ma anche una versione estrema di quest’ultimo, caratterizzata da dosi eguali di reddito. L’implicazione, per l’eguaglianza di trattamento rispetto ai Lea, sarebbe il ricorso ad una quota capitaria secca pari al valore medio pro capite della spesa necessaria alla soddisfazione complessiva dei Lea.
In questa prospettiva, se si considerano i dati correnti di spesa sanitaria pubblica, il Servizio sanitario nazionale appare ben posizionato. Nel decennio 1991-2000 si è, infatti, assistito ad una progressiva egualizzazione nella distribuzione della spesa sanitaria pubblica pro capite: la Calabria, per esempio, ha registrato un incremento della spesa corretta per la mobilità dell’80%, mentre per l’Emilia-Romagna l’incremento è stato solo del 27%11.
Dotazioni monetarie differenziate. Il prezzo da pagare, per non pronunciarsi in merito alla differenziazione è, però, quello di dotazioni monetarie che, trattando egualmente soggetti che vivono in regioni caratterizzate da condizioni sanitarie diverse, non trattano come eguali gli abitanti delle diverse zone del paese12. Lungi dall’evitare il ricorso ai valori, si abbraccerebbe il giudizio di valore di ignorare tali diversità.
L’antidoto sarebbe costituito da una nozione di reddito equivalente. È questa, ad esempio, la via indicata da Dworkin (2000), dallo stesso Rawls (2001) e da Pogge (2002), secondo cui le dotazioni dovrebbero contemplare una differenziazione sulla base di bisogni13. In questa prospettiva, l’equità orizzontale richiederebbe di assegnare più risorse ai territori con più bisogni: il riferimento diventa ad una quota capitaria ponderata14. Ciò non implicherebbe necessariamente l’imposizione di valori di parte: i bisogni, lungi dall’essere riconducibili a preferenze interamente soggettive di cui gli individui non possono discutere, come i gusti per il cibo, avrebbero una struttura oggettiva, che facilita la discussione e la ricerca di un qualche consenso15.
Da un lato, i bisogni hanno a che fare con condizioni di morbilità nei cui confronti esistono cure con produttività marginale positiva16. In sanità, la produttività marginale positiva consiste nell’appropriatezza, intendendosi per appropriatezza, in un’accezione generale, l’erogazione di interventi non solo efficaci in sé, ma anche indirizzati a soggetti in condizione di beneficiarne17. Per esempio, un antibiotico è efficace, ma potrebbe avere una produttività marginale negativa se erogato a chi non ha alcun batterio da contrastare. Cure con produttività marginale negativa producono non solo sprechi di risorse (inefficienza), ma anche rischi per la salute, la più parte delle terapie mediche essendo associata a rischi18.
Dall’altro, i bisogni sono preferenze caratterizzate da urgenza. La loro non soddisfazione provoca danni seri agli individui (harm)19: come efficacemente sintetizza Sen (2002a), “ben poco possiamo fare se siamo costantemente disturbati da malattia e niente se siamo morti”20. Non solo: l’urgenza richiede una valutazione equitativa, ossia una valutazione imparziale dei danni, alla luce di principi generali accettabili da tutti, a prescindere dalle condizioni sanitarie, dai gusti e dalle risorse che ci capita di avere21.
Il che non implica ovviamente negare il peso del soggettivismo. Non solo, in molti ambiti sanitari numerose sono le aree grigie, dove l’informazione sul contributo marginale dei diversi interventi è ambigua/limitata. Il che apre la porta a valutazioni soggettive dei costi e benefici coinvolti dal ricorso a prestazioni dagli esiti incerti. Anche in presenza di informazione perfetta, le scelte dei bisogni da privilegiare restano delegate a processi decisionali collettivi in cui gli individui non possono non tenere conto delle valutazioni soggettive espresse dal complesso dei concittadini, malati e non22. L’urgenza richiede unicamente di filtrare le diverse posizioni, tenendo conto della pluralità di individui che potremmo essere, non di prescindere da ciò che i diversi soggetti potrebbero esprimere.
I requisiti di appropriatezza e di urgenza limiterebbero l’area del disaccordo, rendendo possibile un consenso (per intersezione) su un nucleo di bisogni fondamentali (standard)23. Non saremmo così afflitti dai problemi che caratterizzano il soggettivismo (benesserismo), ossia dal rischio di un trionfo dei gusti costosi o di quelli poco costosi. Un tipico esempio di gusti costosi sono i gusti espressi dagli ipocondriaci. Gusti poco costosi sarebbero quelli di soggetti che, seppur malati/sofferenti, non esprimono bisogni di cura, (come nel caso classico di Tiny Tim, nell’A Christmas Carol di Dickens), oppure quelli di persone con preferenze adattive rispetto ad un contesto di svantaggio socioeconomico24
Considerazioni analoghe valgono per la salute. Già oggi, nel nostro ordinamento, la quota capitaria è ponderata sulla base della mortalità perinatale e infantile, come sarebbe richiesto dall’obiettivo di assicurare un determinato ammontare di anni dalla nascita all’età matura. Tale consenso ‘ristretto’ non sembra, dunque, irraggiungibile.
In ogni caso, pur nel riconoscimento delle difficoltà della differenziazione, occorre sia considerare i costi della non differenziazione sia ricordare come, nella prospettiva dell’eguaglianza di risorse, bisogni e salute servano unicamente a differenziare le dotazioni. Le singole regioni resterebbero libere di utilizzare le dotazioni differenziate come desiderino.
Nella letteratura in materia di giustizia si sottovaluta, invece, l’altra esigenza di differenziazione talvolta espressa nel dibattito pubblico anche nel nostro paese: quella che fa leva sulla presenza di contesti di svantaggio, pure a parità di bisogni/salute. Una ragione è che le regioni più svantaggiate sarebbero prive del ‘dividendo’25 di cui godono le regioni più ricche, dove più soggetti ricorrono alla medicina privata, liberando così risorse per il servizio pubblico. Un’altra è che i pazienti poveri potrebbero comportare una maggiore utilizzazione delle strutture di ricovero, non disponendo, privatamente, di alternative adeguate di cura26.
Al riguardo, però, da un lato, mancano dati attendibili sui risparmi pubblici derivanti da un maggior ricorso alla spesa privata elettiva nelle regioni più ricche: al contrario, esistono segnali di uso strategico della sanità pubblica per le prestazioni più costose. Da un altro, appare poco convincente legare le sorti della differenziazione ad una variabile, quale il ricorso alla spesa privata elettiva, il cui valore potrebbe fluttuare da un anno all’altro. Da ultimo, rispetto ai rischi di un più intenso uso delle strutture ospedaliere in presenza di povertà, l’implicazione efficiente, quanto meno nel medio periodo, appare quella di destinare più risorse al contrasto dello svantaggio socioeconomico (anziché alla sanità)27.
La versione delle risorse specifiche. Come sottolinea Sen (1985, 1992, 1999)28, la disponibilità di risorse monetarie, ancorché differenziate, potrebbe essere insufficiente a garantire le conversione in risultati. A questo fine, è necessaria la predisposizione di un’infrastruttura di servizi. Per esempio, è difficile convertire risorse monetarie in assistenza a lungo termine, in mancanza di strutture residenziali protette e di servizi di assistenza domiciliare. Similmente, l’assenza (o la sostanziale assenza) di strutture di radioterapia ostacola la cura dei tumori, anche a parità di dotazioni monetarie.
Anziché in termini monetari, le risorse dovrebbero, allora, sostanziarsi in termini specifici, delle risorse fisiche esistenti nelle diverse regioni, dal personale alle strutture e ai macchinari. Tali dotazioni, a loro volta, andrebbero considerate in termini di standard non solo quantitativi, ma anche qualitativi.
Così procedendo non si verificherebbe il rischio, evitato dalla versione monetaria, di imporre non solo determinate finalità, ma soprattutto determinate modalità organizzative, a prescindere dalle diversità nelle condizioni regionali (caratterizzate da impieghi differenziati di posti letto ospedalieri, day hospital, strutture territoriali diurne e residenziali, infermieri, medici)?
Se si condivide il ragionamento appena fatto circa la legittimità della differenziazione delle risorse monetarie, sembra difficile opporsi alla disponibilità di servizi utili al raggiungimento di finalità condivise. Inoltre, come per la differenziazione, l’obiettivo non è quello di ricercare un consenso su tutto. Al contrario, ci si potrebbe rivolgere ad un nucleo ristretto di risorse specifiche, in termini di ospedali, ambulatori, servizi di farmacovigilanza e più complessiva promozione della qualità sui quali tutti concordino. Al tempo stesso, variazioni fra regioni del 300% nei tassi di ospedalizzazione appaiono difficilmente ascrivibili a differenze nelle preferenze nei modelli di cura. In altri termini, gli aspetti di bene pubblico locale della sanità paiono decisamente più contenuti rispetto a quanto asserito dai fautori più accesi del federalismo fiscale. Infine, in presenza di differenze regionali, non si sottovaluti il ruolo delle preferenze adattive, quali, quanto meno in parte, potrebbero essere quelle sopra citate per la cura domestica29.
Anche in questo caso, infine, resterebbero aperte le medesime scelte se differenziare o no e su quale base.
3. Il criterio dell’eguaglianza di accesso
a servizi/prestazioni
Il criterio dell’eguaglianza di risorse rappresenta una nozione di eguaglianza di opportunità: le dotazioni di risorse rappresentano le opportunità per raggiungere le finalità che si desiderano. Come argomentato con forza da Sen in questi ultimi anni, esso rappresenta, però, una nozione carente sotto diversi aspetti anche qualora si sostanzi in termini di eguaglianza di risorse specifiche differenziate.
Innanzitutto, le dotazioni di risorse non riusciranno mai a ‘mimare’ con precisione le condizioni dei diversi contesti. Si considerino le differenze nei bisogni: anche se tutti acconsentissimo su una definizione di bisogno in termini di cura da una determinata condizione di morbilità, la misurazione di tale condizione non può che poggiare su proxy. Date le difficoltà di rilevazione della morbilità, la variabile più utilizzata, i tassi di mortalità (standardizzata per sesso e per età) per le diverse condizioni di morbilità, ignora, però, i tanti e seri danni della malattia, una volta esclusa la morte. Inoltre, i tassi di mortalità, come tutte le variabili di esito, sono soggetti ai rischi di confondimento, non permettendo di distinguere la mortalità attribuibile alla sanità da quella attribuibile ad interventi extrasanitari. Similmente evidenti sono i limiti di altre proxy, quali eventuali indicatori demografici e/o socioeconomici, utilizzabili alla luce rispettivamente della relazione a J fra spesa sanitaria e età e della correlazione positiva fra condizioni sanitarie e socioeconomiche (cfr. nota 27). Per esempio, pur essendo assodato il peso di queste ultime sull’insorgenza e sulla gravità dei bisogni30, rimangono incerti i pesi specifici da attribuire alla deprivazione assoluta, al gradiente sociale (ossia, alle disuguaglianze relative)31, nonché ai singoli svantaggi, da quelli in termini di reddito disponibile a quelli in termini di istruzione, collocazione sul mercato del lavoro e contesto in cui si vive. Il rischio complessivo diventa, dunque, quello di dare troppo o troppo poco32.
Inoltre, le opportunità resterebbero, comunque, limitate ai mezzi e i mezzi sono solo una delle condizioni per accedere ai risultati ricercati. A tal fine, è cruciale anche l’assenza di barriere a prescindere dalle risorse. Basti pensare ai tempi di attesa, alle rigidità negli orari, alla disponibilità ad ‘ascoltare’ da parte degli addetti ai servizi, alle eventuali carenze informative/culturali e agli eventuali ostacoli economici a danno degli utenti, abbiano essi a che fare con la presenza di compartecipazioni e/o di vincoli dovuti a difficoltà connesse all’assentarsi dal lavoro o dalle responsabilità di cura. Perché allora limitare l’eguaglianza di trattamento alle risorse, anche se specifiche? Ciò rifletterebbe, secondo Sen, un feticismo (insensato) delle risorse.
L’antidoto sarebbe una nozione più esigente di opportunità in termini di accesso a servizi/prestazioni (di pari qualità). Nella letteratura sanitaria, tale nozione è stata difesa soprattutto in contrapposizione all’eguaglianza nella soddisfazione dei bisogni (Le Grand, 1991; Mooney et al., 1991 e 1992). Essa, tuttavia, contrasta anche molti dei limiti dell’eguaglianza di risorse33. Nella prospettiva di Le Grand (cit.), più in particolare, l’eguaglianza sarebbe violata in presenza non solo di barriere, ma anche di diversità di costi all’accesso, siano essi monetari e/o psicologici34.
Così procedendo, certamente, risulterebbe accentuato il movimento verso l’uniformità nelle condizioni di offerta. Oltre che rispetto ad un insieme fondamentale di servizi, l’accesso a prestazioni di pari qualità richiederebbe, infatti, una maggiore uniformità anche nei processi di cura. Esattamente come per le risorse specifiche, l’indicazione non è, però, a favore di uniformità su tutto. Semplicemente, se le evidenze scientifiche sostengono la superiorità di un processo rispetto ad un altro, non si vede perché assicurarlo a tutti i cittadini sarebbe lesivo della libertà. Al contrario, è plausibile che la stragrande maggioranza vorrebbe disporne35.
In ogni caso, l’attenzione ad una qualche eguaglianza nei processi appare perfettamente compatibile con il riconoscimento della possibile pluralità di tali processi con riferimento anche alla medesima malattia. Inoltre, nella prospettiva dell’eguaglianza di accesso, sarebbero inique solo le disuguaglianze relative alle barriere all’accesso a servizi/prestazioni di pari qualità. Non lo sarebbero le disuguaglianze negli esiti, una volta egualizzate le condizioni di accesso a cure di eguale qualità, le quali rifletterebbero il rispetto della libertà. La libertà di scelta non sarebbe, dunque, violata.
4. Il criterio dell’eguaglianza di risultati
Come argomenta Fleurbaey (2006), verificare la presenza di opportunità di accesso rischia di essere impossibile, la verifica richiedendo di sapere se il soggetto che, in una data situazione, ha fatto y avrebbe potuto fare x. Tale informazione si riferisce, infatti, ad un contro-fattuale (quello che si sarebbe fatto, ma non si è fatto) che non è osservabile. Ad esempio, si ipotizzi che, pur in presenza di campagne informative, un determinato soggetto non acceda a vaccinazioni o a screening preventivi. Come fare a sapere se abbia ricevuto informazioni adeguate oppure sia ancora disinformato oppure sia informato, ma non possa accedere per i vincoli al lavoro? Osservazioni simili valgono nei confronti di ticket anche relativamente bassi. Per sapere se un eventuale non accesso sia o no frutto di libera scelta, dovremmo conoscere l’utilità marginale del reddito dei diversi soggetti. Similmente, si ipotizzi di rivolgersi alla spesa privata in quanto proxy di barriera all’accesso. In tal caso, come conoscere la parte imputabile alle preferenze individuali e, in quanto tale, da scorporare36?
Inoltre, resterebbero aperti i rischi di differenziazione insufficiente delle risorse rilevati a proposito dell’eguaglianza di risorse. Infine, come essere sicuri che le prestazioni siano di pari qualità? Gli indicatori disponibili sui processi di cura sono largamente incompleti.
L’antidoto, in linea con molte delle indicazioni provenienti dagli epidemiologi, sarebbe di focalizzarsi sui risultati. In ambito di teorie della giustizia, l’attenzione ai risultati contraddistingue le prospettive benesseristiche e dei bisogni fondamentali, le quali interpretano i risultati in termini rispettivamente di benessere e di soddisfazione di bisogni, a loro volta intesi in termini soprattutto strumentali di utilizzazione di servizi/consumo di prestazioni.
Seguendo Sen, i risultati potrebbero, però, essere intesi in una prospettiva che non solo è non benesseristica, come la prospettiva dei bisogni fondamentali, ma che estende i risultati, includendovi esiti ‘più finali’ in termini di cura e di salute. Per esempio, nell’accezione strumentale, il risultato sarebbe accedere a un’operazione di appendicectomia, qualora nelle condizioni di bisogno. In quella finale, conterebbero anche gli esiti in termini di recupero della funzionalità/assenza di complicanze e di attese di vita37. Più in particolare, i risultati sono denominati da Sen ‘funzionamenti’.
Entrambe le accezioni, strumentale e finale, di risultato appaiono particolarmente utili in sanità. Se la prima accezione è afflitta dalle difficoltà di definire in modo completo la qualità, la seconda è, infatti, afflitta dai rischi di confondimento.
L’obiezione tipicamente rivolta all’eguaglianza di risultati è di violare qualsiasi dimensione di libertà. Seppure per ragioni opposte, ci ritroveremmo a scontrarci con la medesima criticità imputata all’eguaglianza di risorse: gli individui non sarebbero trattati come eguali. Lo stesso Sen, pur criticando l’eguaglianza di risorse e riconoscendo il ruolo dei risultati, non difende la soddisfazione tout court di questi ultimi, bensì l’eguale opportunità di realizzarli.
Utilizzando la terminologia di Sen, l’obiettivo dovrebbe essere quello delle capacità, intese come opportunità di perseguire i funzionamenti. Avere una capacità può implicare di scegliere di non raggiungere il funzionamento associato, come nel noto esempio di Sen di chi, pur avendo il reddito per acquistare il cibo, decide di digiunare. Digiunare, però, è ben diverso da morire di fame.
Le libertà che rischiano di essere violate dall’eguaglianza di risultati non sarebbero unicamente le libertà di scelta. Sarebbe violata anche la dimensione dell’integrità personale (libertà di non essere minacciati da interventi che ledono il nostro corpo e le nostre attese di vita). Si consideri l’eguaglianza di salute. Se questo fosse l’obiettivo, non si dovrebbero solo garantire le stesse cure a individui che potrebbero non volerle, come nel caso dell’eguaglianza nella soddisfazione dei bisogni. Si porrebbe anche il rischio del cosiddetto levelling down, ossia di un’egualizzazione ottenuta unicamente attraverso il peggioramento di chi sta meglio senza miglioramento per chi sta peggio. Per esempio, data l’impossibilità tecnica di aumentare le attese di vita degli uomini, l’unico modo per egualizzare i risultati di salute sarebbe quello di uccidere/lasciare morire le donne al raggiungimento dell’età media degli uomini38.
La ricerca dell’eguaglianza di salute potrebbe, altresì, provocare un incremento della disuguaglianza, come in molti programmi di prevenzione individuale, i cui benefici tendono a concentrarsi fra i più avvantaggiati. Paradigmatici sono i programmi di prevenzione della mortalità neonatale negli Usa (Mechanic, cit.). Nel 1950, tale mortalità era pari, per i neri, a 43,9 per 1000 bambini nati vivi, mentre per i bianchi era pari a 26,8. Nel 1998, le percentuali erano rispettivamente del 13,8 e del 6. La differenza, a danno dei neri, era aumentata dal 64,7 al 130, nonostante il guadagno in termini assoluti. Programmi aggiuntivi specificamente indirizzati ai neri avrebbero potuto incrementare l’eguaglianza. Tali programmi potrebbero, però, comportare una spesa elevata a fronte di bassi guadagni in termini aggregati di salute39.
Ma siamo sicuri che concentrarsi sull’eguaglianza di risultati comporti i costi appena indicati? Da un lato, il riferimento ai risultati appare inevitabile per i minori, gli insani di mente e i beni pubblici dai benefici non escludibili40. Dall’altro, a prescindere da questi casi, i rischi di interferenza sono inevitabili qualora il riferimento sia al piano interindividuale. La questione è se l’eguaglianza di risultato possa essere applicata al piano territoriale o, più complessivamente, a gruppi di individui, in quanto proxy di una nozione di eguaglianza di opportunità (sia essa nella versione dell’eguaglianza all’accesso a servizi/prestazioni o in quella delle capacità). Come argomenta Hausman (2007), la risposta appare positiva: sul piano territoriale, eventuali ineguaglianze di salute appaiono difficilmente interpretabili come effetto di cause puramente naturali/irrimediabili o della libertà di scelta di non volere essere curati. Peraltro, il riferimento ai risultati è spesso utilizzato come non problematico, per verificare l’eguaglianza di opportunità in ambito di istruzione superiore: basti pensare al riferimento al numero dei soggetti in possesso di laurea o di determinate competenze, i quali altri non sono che soggetti che hanno acquisito un determinato risultato.
Inoltre, in presenza di trade off fra diminuzione della disuguaglianza e guadagni di salute per i più svantaggiati, come nel caso sopra citato degli interventi di prevenzione, potrebbe essere ragionevole accettare un qualche incremento della disuguaglianza, come nel ragionamento che sta alla base della difesa rawlsiana del maximin. La disuguaglianza, in altri termini, sarebbe la contropartita dei miglioramenti (assoluti) di salute per i più svantaggiati.
Infine, punto spesso sottovalutato nel dibattito pubblico, lungi dallo stimolare la passività, il riferimento ai risultati potrebbe incentivare il miglioramento dell’assistenza. Non si darebbero più risorse a chi sta in condizioni peggiori – il che, sebbene possa non incentivare un peggioramento esplicito ed opportunistico di tali condizioni – non ne incentiva il miglioramento. Si potrebbe, al contrario, condizionare una parte del finanziamento al raggiungimento di risultati.
5. Conclusioni
Le considerazioni finora svolte congiurano contro una riduzione dell’eguaglianza di trattamento rispetto ai Lea alla mera eguaglianza di risorse monetarie, anche qualora differenziate, o, addirittura, di risorse specifiche. Le risorse sono mezzi e i mezzi sono solo una delle condizioni per raggiungere i risultati ricercati. L’eguaglianza di accesso a ser­vi­zi/pre­stazioni ci forza a tenere conto anche delle barriere che potrebbero ostacolare la conversione delle risorse in risultati. Resta, però, soggetta ad alcuni limiti dell’eguaglianza di risorse, ossia ai rischi di una differenziazione inadeguata delle risorse. Inoltre, si pongono la questione del contro-fattuale nonché le difficoltà di verifica della pari qualità delle prestazioni.
Ciò rende desiderabile il ricorso ad una nozione di eguaglianza di trattamento sulla base di ciò che le risorse e il più complessivo assetto organizzativo dei servizi dovrebbero permettere, ossia il conseguimento di risultati, in termini di soddisfazione di bisogni e di salute. I bisogni, a loro volta, andrebbero considerati sia nell’accezione strumentale sia in quella finale.
Una siffatta prospettiva plurale impedisce lo sviluppo di misure sintetiche di disuguaglianza. Ciò nondimeno, ha il grande pregio di portare alla luce dimensioni di possibili iniquità che rischierebbero di essere ignorate in prospettive più univoche, così permettendo scelte più oculate.
Si può certamente dissentire da questa conclusione.
Tre elementi vanno, però, sottolineati. Primo, le argomentazioni svolte, adottando una prospettiva di giustizia, portano a conclusioni simili a molte di quelle sostenute in ambito epidemiologico, dove la richiesta è per una maggiore attenzione ai risultati.
Secondo, diversamente da quanto spesso affermato nel dibattito pubblico, occuparsi di eguaglianza di risultati non è necessariamente lesivo della libertà di scelta. Naturalmente, procedere in questa direzione limita la discrezionalità regionale, mirando ad assicurare una qualche uniformità nei risultati sanitari fra le diverse regioni. Tale uniformità appare, però, il riflesso della definizione nazionale dei Lea, i Lea riflettendo il carattere universale dei diritti. In ogni caso, come più volte sottolineato, l’indicazione non è quella di ricercare il consenso su tutto, bensì su un nucleo (un core) di risultati41. L’eguaglianza di risultati, inoltre, non è difesa come obiettivo individuale – il che implicherebbe violazione delle preferenze individuali. Al contrario, è ricercata in ambito territoriale, in quanto proxy al fine della realizzazione dell’eguaglianza di opportunità (sia essa nella versione dell’eguaglianza di accesso a servizi/prestazioni o in quella dell’eguaglianza di capacità).
Terzo, alcune scelte appaiono comuni, qualsiasi sia la versione prescelta di eguaglianza di trattamento. Non solo se si procede nella direzione dell’eguaglianza di risultati, resta, infatti, necessario occuparsi di risultati. Anche l’eguaglianza di opportunità, richiedendo di specificare servizi e prestazioni rispetto ai quali assicurare l’accesso, comporta una selezione implicita dei bisogni che si vogliono soddisfare e della salute che si vuole ricercare42. Lo stesso vale per l’eguaglianza di risorse monetarie nella versione differenziata nonché per l’eguaglianza di risorse specifiche.
D’altro canto, la verifica stessa dell’eguaglianza di risultati richiede la presenza di una batteria plurale di indicatori che, oltre ai risultati, rilevi anche la disponibilità (differenziata) di risorse monetarie e specifiche e la presenza o meno di un insieme di barriere/costi all’accesso43. Dunque, prima di dissentire sui valori ultimi, esiste uno spazio assai ampio di lavoro comune.
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