Il Libro bianco sul nuovo welfare

Nerina Dirindin

Dipartimento di Scienze Economiche e Finanziarie ‘Giuseppe Prato’, Università di Torino


Il Libro bianco: una prassi poco diffusa in Italia
Non importa il colore del libro: la denominazione ‘libro bianco’ o ‘libro verde’ è sufficiente ad indicare un documento, ufficiale ma privo di valenza normativa, dedicato a uno specifico tema, con obiettivi di volta in volta informativi, esplorativi o dichiarativi su un problema e le sue possibili soluzioni. I significati delle due denominazioni (bianco o verde) sono parzialmente diversi a seconda dell’ente o dell’organismo che li adotta, ma in generale con ‘libro bianco’ si intende un documento che contiene proposte di azioni, mentre con ‘libro verde’ un documento di consultazione e dibattito 1.
La produzione di tali documenti fa parte della tradizione anglosassone e solo recentemente sono stati adottati nel nostro paese come strumenti di riflessione o proposta. Si tratta di un’innovazione importante perché permette di affrontare un problema in modo aperto, discutendo una gamma di idee o di proposte su questioni politiche di particolare rilevanza, in vista di possibili interventi legislativi.
In tal senso, la recente iniziativa del Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali costituisce una novità significativa: nel luglio 2008 il Ministero ha pubblicato un documento per la consultazione pubblica sul futuro del modello sociale (Libro verde) e nel maggio 2009 ha diffuso il corrispondente Libro bianco, il cui testo “è largamente debitore del prezioso contributo” degli “oltre mille soggetti” che hanno preso parte alla consultazione. Come preannunciato, in coerenza con il Libro bianco, il Governo “formulerà le proposte in materia di lavoro, salute e politiche sociali per l’intera legislatura”.

La struttura del documento
Il Libro bianco La vita buona nella società attiva è strutturato in sei capitoli.
Il primo è dedicato allo scenario attuale e alle tendenze in atto: affronta temi significativi come la crisi dell’economia reale, i cambiamenti demografici, la ricerca, le biotecnologie, i nuovi modelli organizzativi d’impresa. Il secondo tratta dei limiti e delle potenzialità del modello sociale italiano: le “disfunzioni” sono individuate nella “frattura tra i buoni modelli di un Nord sviluppato e le inefficienze sistemiche di un Sud arretrato” e in un “eccessivo peso del capitolo pensionistico che penalizza, in particolare, la spesa sanitaria”.
Segue un capitolo dedicato ai valori: persona, famiglia e comunità. Con riguardo alla persona, il Libro bianco esplicita la sua visione: “il riconoscimento… del valore di ogni singola persona, prima di ogni altra considerazione relativa ai costi, alle risorse, ai calcoli, alle convenienze”. Il paragrafo su diritti e doveri contiene richiami alle istituzioni e alle famiglie, che “devono offrire ai giovani un modello di comportamento fondato sulle responsabilità”: richiami importanti per contrastare l’attuale prevalere di superficialità e furbizie, spesso non sufficientemente messe in discussione.
Il quarto capitolo espone la visione del nuovo welfare, con considerazioni sull’assistenza territoriale, sui piani di rientro (che, si sostiene, possono condurre in tempi brevi a una radicale riorganizzazione dei servizi sociosanitari), sulla presa in carico (con riferimenti al fascicolo sanitario elettronico), sulla maternità e sui temi del lavoro. Il quinto capitolo riguarda meriti e bisogni: discute di povertà, disabilità, anziani e continuità della cura, sostegno alla famiglia, ammortizzatori sociali e remunerazione del lavoro.
L’ultimo capitolo, infine, disegna un modello sociale che si ritiene sostenibile se basato su un sistema multipilastro, sul federalismo fiscale e sull’universalismo selettivo.
Le conclusioni si limitano a rinviare a successivi piani di azione.

Una lettura piuttosto complessa
Il Libro bianco si presenta come un documento di non facile lettura.
La struttura appare curata nei titoli, meno nei contenuti; si configura come insieme di parti, più che come ordinata rappresentazione di un pensiero chiaro e compiuto.
Il linguaggio è crudo, assertivo, per lo più allarmante quando si fa riferimento alla situazione attuale, mentre è retorico, suggestivo e rassicurante quando si parla del futuro. In generale è scritto con un linguaggio tecnico, freddo e distaccato che mal si addice a un documento che vuole mettere al centro la persona.
I contenuti sono ampi, alternano passaggi generici (che si prestano a una pluralità di interpretazioni, anche contrastanti) e affermazioni puntuali (che delimitano le argomentazioni proposte); propongono come autentiche innovazioni concetti condivisi e consolidati (si veda il concetto di salute che riprende, non senza imprecisioni, la nozione del 1948 dell’Organizzazione mondiale della sanità2), mentre prospettano soluzioni che ignorano evoluzioni culturali importanti (i servizi per la prima infanzia sono considerati strumenti per favorire l’ingresso delle donne nel sistema produttivo, pag. 53, a dispetto del crescente riconoscimento del valore educativo e sociale degli stessi!).
La difficoltà di lettura è riconducibile allo sforzo necessario per comprendere come si concilino affermazioni che considerano il welfare un sistema da “confermare e potenziare” (pag. 31) con proposte che ne prevedono una profonda revisione. Una scelta ideologica, quindi, come è legittimo che un Governo faccia, ma che dovrebbe essere presentata in quanto tale; una scelta a favore di un rilevante pilastro privato, formalmente motivata dalla eccessiva dinamica della spesa sanitaria, ma che sostanzialmente ne sorregge la crescita (via il mercato privato); che denuncia inefficienze e inappropriatezze, ma che promuove gli erogatori privati (che certo non caldeggiano l’appropriatezza e, quindi, non perseguono l’efficienza complessiva del sistema).
In sintesi, un documento di difficile comprensione perché propone una terapia che non sembra essere in grado di curare il male per il quale è stata prescritta, ma al contrario lo aggrava, tradendo anche le enunciazioni valoriali esposte nel Libro bianco.

Il glossario: i passaggi chiave per il nuovo welfare
Una lettura chiarificatrice è il Glossario per un nuovo welfare (2009), breve nota aggiuntiva al Libro bianco, disponibile nel sito web del Governo. Essa propone una selezione di alcuni termini utili per comprendere il welfare delineato dal Ministero. Contiene undici concetti che rappresentano “il seme delle politiche che dovranno accompagnare, attraverso i Piani d’azione del Governo, la traduzione nei fatti degli obiettivi del Libro bianco”. Il documento sorprende per la sua estrema sinteticità, anche perché il Libro bianco contiene numerose espressioni di non facile comprensione, che meriterebbero qualche chiarimento.
In realtà il documento non è un glossario, ma “una selezione dei passaggi chiave su cui s’appronta il cammino del nuovo welfare”. Proprio per questo merita attenzione.
I passaggi chiave sono undici:
• uno sul nuovo concetto di welfare: ‘Dal welfare state alla welfare society’;
• due su sostenibilità finanziaria: ‘universalismo selettivo’ e ‘piani di rientro’;
• due sulle povertà: ‘povertà assoluta e povertà relativa’ e ‘reddito di ultima istanza’;
• due sul federalismo: ‘costo storico e costo standard’ e ‘federalismo fiscale’;
• uno sul significato di ‘presa in carico’;
• due sulla sanità: ‘salute’ e ‘Lea’;
• uno sul lavoro: ‘lavoratore’.
Il glossario rende evidente l’idea di welfare stilizzata e semplificata del Ministero.
Di seguito si discutono alcuni passaggi chiave, con riguardo alle implicazioni sulle scelte di politica sanitaria. In coerenza con lo stile segmentato del documento, i singoli passaggi sono trattati separatamente.
Dal welfare state alla welfare society
Il primo concetto chiave è “dal welfare state al(la) welfare society” che ricomprende due elementi: a) la sostituzione della “centralità dello Stato” con la “centralità della persona e della società civile”, b) l’esplicitazione delle finalità del welfare individuate nella “risposta ai bisogni sociali” e nella “crescita socioeconomica”.
Qualche considerazione sul superamento della centralità dello Stato. L’affermazione che il passaggio chiave verso il nuovo welfare richiede il superamento della centralità dello Stato pare generica e fuorviante, qualunque sia il significato attribuito al termine Stato, che si pensi all’Amministrazione centrale o al più ampio concetto di Amministrazione pubblica. Le politiche del welfare non coincidono infatti con le politiche dello Stato, al quale si affiancano gli enti territoriali che in alcuni ambiti svolgono un ruolo quasi esclusivo. Le politiche del welfare non coincidono neanche con le politiche del settore pubblico, stante la pluralità di attori (pubblico, privato, terzo settore, reti informali, etc) coinvolti dal lato della produzione dei servizi, ma anche della programmazione partecipata degli interventi. Anzi proprio la pluralità dei soggetti costituisce una delle evoluzioni più significative del nostro welfare. Non si vuole qui negare la necessità di sottoporre a severa critica il ruolo tradizionalmente svolto dallo Stato (e dalla Pubblica amministrazione), ma sarebbe opportuno che il Libro bianco chiarisse di che cosa sta parlando quando enuncia il superamento della centralità dello Stato: centralità nella programmazione, nel finanziamento, nella organizzazione dei servizi, nella produzione di prestazioni, nella erogazione degli interventi?
L’universalismo selettivo: come e dove?
Il secondo concetto è l’“universalismo selettivo”, principio che, secondo il Libro bianco, “segna la distanza dall’utopia dell’universalismo assoluto, che non fa i conti con la scarsità delle risorse e con la sostenibilità”.
Il documento aderisce “all’idea secondo cui la modernizzazione in senso non categoriale del welfare non può prescindere dal rispetto degli equilibri finanziari ed è quindi opportuno si realizzi attraverso riforme ispirate a una scelta equilibrata tra universalismo dei diritti, quanto a individuazione della platea dei beneficiari, e selettività in base alla condizione economica, quanto a livelli di erogazione delle prestazioni o grado di compartecipazione alla spesa” (Toso, 2009). Il Libro bianco non si esprime peraltro sulle modalità attraverso le quali è garantita la “sostenibilità finanziaria”; non parla di prova dei mezzi, non si esprime sull’Indicatore della situazione economica equivalente (Isee) e sui problemi applicativi fin qui sperimentati (Toso, 2009). Ma soprattutto, non precisa in quali ambiti del welfare ritiene di proporre l’universalismo selettivo. L’universalità del servizio sanitario, più volte pubblicamente attaccata dal Ministro Sacconi, sembra essere il bersaglio principale di tale affermazione, anche se non esplicitamente richiamata.
Al contrario, il Libro bianco afferma che i servizi sono garantiti a tutti “secondo gli effettivi bisogni e meriti di ciascuno”.
Il riferimento alle condizioni di “effettivo bisogno” è affermazione di particolare significato perché evoca concetti ampiamente diffusi nella normativa, ma anche – pur con qualche debolezza – nell’agire del sistema sanitario: la necessità di una valutazione preliminare del bisogno e, di conseguenza, la garanzia di servizi appropriati rispetto allo specifico bisogno. Il riferimento alle condizioni di “effettivo bisogno” è inoltre significativo in vista delle azioni che potrebbero modernizzare e dare impulso a importanti settori del sociosanitario (disabilità, invalidità, non autosufficienza, etc). L’affermazione potrebbe infatti rivelare l’intenzione del Governo di favorire il ridimensionamento del ruolo di supplenza svolto dalle famiglie nel lavoro di cura, soprattutto nel sociosanitario (ancora pesantemente a carico delle famiglie, nonostante l’“effettivo bisogno” di molte persone) e di superare definitivamente l’impianto categoriale di molte politiche di welfare (storicamente basate sull’appartenenza a una determinata categoria, anziché sull’accertamento del bisogno). Se, in coerenza con l’enunciato, tali azioni venissero programmate, si tratterebbe di una riforma epocale.
Meno chiaro il riferimento ai “meriti di ciascuno”, criterio in base al quale dovrebbero essere garantiti i servizi a tutta la popolazione. È probabile che si riferisca a interventi estranei al settore sanitario o sociosanitario, che qui non si approfondiscono.
La povertà assoluta e il welfare minimale
Il Libro bianco propone la distinzione fra povertà assoluta e povertà relativa, con l’obiettivo di porre l’enfasi sulla prima forma di povertà, quella caratterizzata dalla mancanza dei “beni necessari a soddisfare i bisogni essenziali di sussistenza” e di trascurare la seconda, quella contraddistinta dalla “carenza di beni e servizi in riferimento al livello medio dell’ambiente sociale in cui si vive”. Tale impostazione è stata sottoposta a numerose critiche, sia perché misconosce i progressi compiuti dal dibattito internazionale sulla necessità di non limitare l’attenzione agli ultimi (Caritas et al, 2008), sia perché “riflette una visione caritatevole delle politiche redistributive” (Toso, 2009).
Un documento che sottolinea l’importanza di distinguere fra povertà assoluta e povertà relativa, evoca una visione minimale delle politiche sociali, in cui non esistono diritti di cittadinanza, ma solo situazioni estreme meritevoli di attenzione. Si ripresenta in altri termini il dibattito, mai sostanzialmente superato benché chiarito dall’art. 117 della Costituzione, fra livelli minimi e livelli essenziali delle prestazioni. Come noto, la l. 328/2000 ha un chiaro impianto universalistico (tutte le persone possono accedere alla rete dei servizi sociali), anche se riconosce che, in presenza di risorse scarse, l’accesso è garantito in via prioritaria alle persone in difficoltà. C’è il timore che si discuta non tanto della necessità di una riforma organica delle politiche sociali (condivisa da molti anni e da molte parti politiche; Guerzoni, 2009), ma si sottoponga a dura critica una forma avanzata di organizzazione dello Stato democratico, che cerca faticosamente di rendere effettive le garanzie previste dalla Costituzione. Il timore è che, anziché proseguire nel difficile (e impopolare) percorso di razionalizzazione della spesa e di riorganizzazione degli interventi (come, nel settore sanitario, con i Patti per la salute e i Piani di rientro), si preferisca procedere con la riduzione dei diritti, evocando ragioni di risanamento della finanza pubblica e di impatto della crisi mondiale, che al contrario dovrebbero portare ad un ripensamento dei diritti e del modello di crescita (Fattore, 2009; Granaglia, 2009). Che la riduzione delle garanzie sia una tentazione alla quale il Ministero fa fatica a resistere è documentato, fra gli altri, dalla recente proposta (prontamente rigettata dalle Regioni, e quindi subito accantonata) di escludere dai Livelli essenziali di assistenza sanitaria un’ampia gamma di prestazioni di diagnostica per immagini; una proposta non coerente con il principio del Libro bianco della “risposta all’effettivo bisogno”, ma che potrebbe trovare fondamento nel principio (dello stesso Libro bianco) della “crescita economica”, ovvero delle opportunità di crescita di un settore attualmente sacrificato dalle timide azioni regionali di contenimento della spesa, attraverso interventi sull’appropriatezza. Un esempio delle difficoltà del documento a esplicitare in modo chiaro gli obiettivi cui vuole tendere.
I soldi possono seguire il paziente?
La centralità della persona, di cui sopra, “comporta inesorabilmente una maggiore libertà di scelta e la conseguente creazione, ove possibile, di regolati mercati competitivi della offerta” (pag. 52), in cui i soldi seguono i pazienti. Il principio che “le risorse seguono la scelta del paziente” risponde, secondo il Libro bianco, a un concetto di sussidiarietà (pag. 25).
Il tema merita qualche approfondimento.
Il documento riprende un’idea contenuta originariamente nel Libro bianco del 1989 Working for patients (Department of health, 1989) del Governo Thatcher, che propose l’introduzione nel Nhs di elementi di competizione propri dei mercati concorrenziali3. L’idea che i soldi debbano seguire i pazienti è il messaggio, quasi uno slogan, che ha ispirato nel corso degli ultimi decenni molte enunciazioni (e qualche atto concreto) dei responsabili delle politiche sanitarie di molti paesi. Essa parte dall’assunto che ogni paziente sia in grado di effettuare una scelta razionale riguardo la propria salute, disponga quindi direttamente o indirettamente (tramite il suo agente: il medico di fiducia) delle informazioni necessarie a individuare l’opzione migliore anche rispetto alle proprie preferenze, non sia limitato dai costi (monetari e non) connessi alla ricerca delle informazioni e all’accesso ai servizi: in presenza di tali condizioni, garantire al paziente la libertà di scegliere la soluzione ottimale non può che essere un potente fattore di miglioramento del sistema, in termini di qualità ed efficienza, via meccanismi di ‘quasi’ mercato. In tal senso le risorse disponibili per la generalità dei beneficiari (in sistemi universalistici, così come in forme assicurative di tipo categoriale) dovrebbero, sempre secondo tale ipotesi, essere guidate dalle scelte individuali anziché dalle decisioni dei responsabili delle politiche sanitarie.
Le evidenze empiriche, oltre che le analisi tecniche, dimostrano peraltro che tali assunti sono in gran parte infondati: il consumatore soffre di asimmetrie informative, il medico è un agente imperfetto, l’informazione è costosa, le scelte sono vincolate, l’offerta sul territorio è incompleta, etc.
Diverso è il caso delle compensazioni per la mobilità interregionale sanitaria, dove l’attività svolta a favore di cittadini non residenti deve necessariamente essere remunerata; si tratta peraltro di una mobilità per lo più obbligata, per carenze quali-quantitative dell’offerta sul proprio territorio, e non dell’espressione di una libera scelta del luogo di cura da parte del consumatore.
Il costo standard: è applicabile e affronta
il problema giusto?
Il Libro bianco sottolinea un concetto, contenuto nella l. 42/2009 sul federalismo fiscale, relativo all’introduzione della nozione del costo standard in contrapposizione al costo storico. Il Glossario precisa che per costo storico si intende “la media della spesa storica sostenuta per una prestazione”, mentre per costo standard si intende “la media del costo effettivo di un servizio”. La precisazione non aiuta a fare chiarezza; ciò che merita attenzione è peraltro l’affermazione secondo la quale il settore sanitario è ancora profondamente ancorato al finanziamento a piè di lista della spesa delle Regioni e che tale modalità deve essere rapidamente superata (pag. 17).
Ma è vero che le Regioni sono ancora finanziate a piè di lista?
Si tratta di un’idea sbagliata, verosimilmente frutto di una conoscenza superficiale e aneddotica del sistema sanitario italiano (Dirindin, 2009). La sanità infatti è il settore che prima di ogni altro ha superato il criterio della spesa storica: dal 1997 (art. 1, c. 34, l. 662/1996) è stata introdotta la quota capitaria ponderata, un sistema che distribuisce le risorse in base alla popolazione da tutelare, e non alla spesa storica, con qualche correttivo legato soprattutto all’età, uno dei più importanti fattori di rischio per la salute 4. Vero è che tali criteri sono ancora applicati in modo subottimale, ma l’evidenza dimostra che il superamento del piè di lista ha contribuito a ridurre i divari interregionali di spesa (costringendo le Regioni a confrontarsi con i vincoli di bilancio e ad avviare alcuni percorsi virtuosi), nonché a contenere alcuni eccessi (nella dotazione di posti letto, nel tasso di ospedalizzazione, nella spesa farmaceutica, etc). Si tratta quindi di un sistema da perfezionare, non da superare (Muraro, 2008).
In realtà, il Libro bianco propone (implicitamente) di calcolare il fabbisogno finanziario di ogni Regione con un metodo bottom up (dal basso), attraverso la valorizzazione economica di ogni singola prestazione in base al costo standard. Una metodologia microanalitica, attualmente assolutamente non praticabile, per un insieme di ragioni che vanno dalla carenza di flussi informativi in alcuni ambiti di attività alla mancanza di una contabilità analitica nelle aziende sanitarie, dall’assenza di metodologie condivise a livello scientifico per il calcolo dei costi unitari dei servizi sanitari (Mogyorosy e Smith, 2005) alla difficoltà a definire le best practice.
Per quanto considerato concetto chiave, il costo standard appare quindi non definito, non applicabile e già anticipato da altri (per quanto imperfetti) strumenti di definizione del fabbisogno standard.
Resta un secondo quesito: dove si annidano le inefficienze nel settore sanitario?
Le inefficienze sono sostanzialmente di due tipi: micro e macro. Le prime riguardano l’impiego dei fattori produttivi nelle singole linee di attività (costo degli input per unità di output), le seconde riguardano l’impiego delle prestazioni sanitarie nella produzione di salute (output necessari per ottenere un esito positivo). La letteratura scientifica sottolinea la necessità di affrontare con determinazione il secondo tipo di inefficienze, ovvero quelle legate all’efficacia e all’appropriatezza dei percorsi di cura, nelle quali si annidano sprechi e inutilità. Pur non sottovalutando le analisi di micro efficienza, merita ricordare che grandi risultati possono essere raggiunti attraverso il contenimento (o il rallentamento nella crescita) dell’erogazione di servizi non appropriati (o addirittura non efficaci) rispetto ai reali problemi di salute. Un ricovero ospedaliero può essere erogato nella migliore delle organizzazioni produttive, ma se tratta pazienti che non hanno bisogno di un soggiorno in ospedale (o addirittura che non presentano alcuna patologia) produce il massimo dell’inefficienza complessiva. E contro tale evenienza, il semplice controllo del costo di produzione (rispetto al costo standard) è del tutto inutile.
I Livelli essenziali di assistenza
Qualche considerazione sul concetto di Lea, Livelli essenziali di assistenza. Il glossario li definisce come “l’insieme delle prestazioni e dei servizi che il Servizio sanitario nazionale è tenuto a fornire a tutti i cittadini, gratuitamente o dietro pagamento di una quota di compartecipazione (ticket) con le risorse pubbliche raccolte attraverso la fiscalità generale”.
In tale definizione è possibile ritrovare tutte le debolezze tipiche di un approccio fondato su:
• la ricerca a tutti i costi del nuovo, anche quando rischia di essere meno chiaro e meno preciso del vecchio;
• la scarsa attenzione alle evidenze scientifiche, all’efficacia e al concetto di costo-efficacia, criteri praticamente assenti nel Libro bianco (salvo accenni generici e meno puntuali del precedente Libro verde, Grilli e Rebba 2008);
• il rifiuto pregiudiziale dell’impianto normativo esistente, a prescindere dai suoi contenuti.
Ne è conferma il confronto con la più articolata definizione di Lea della normativa vigente. Il d.lgs. 229/99 precisa che (art. 1, c. 7) “sono posti a carico del Servizio sanitario le tipologie di assistenza, i servizi e le prestazioni sanitarie che presentano, per specifiche condizioni cliniche o di rischio, evidenze scientifiche di un significativo beneficio in termini di salute, a livello individuale o collettivo, a fronte delle risorse impiegate”. Una definizione molto più rispettosa dei bisogni delle persone e delle risorse pubbliche, completamente trascurata dagli estensori del Libro bianco (o forse sconosciuta agli stessi).
Al contempo, il Libro non affronta il problema, ancora irrisolto, della definizione dei Livelli essenziali delle prestazioni sociali, Lep, operazione fondamentale affinché il processo di attuazione del federalismo fiscale non si limiti a prendere atto di ciò che attualmente è erogato nelle diverse realtà territoriali, ma proceda verso un programmato e graduale sviluppo della rete integrata dei servizi.
La sostenibilità del sistema sanitario
La sostenibilità economica del sistema sanitario è tema ricorrente nel dibattito politico italiano, dove momenti di duro scontro si alternano a periodi di confronto più pacato.
Il Libro bianco è destinato a riaccendere tale dibattito, perché assume l’insostenibilità della spesa sanitaria pubblica e annuncia lo sviluppo del pilastro privato delle coperture assicurative. La posizione è chiara, anche se espressa senza una precisa idea delle soluzioni che si intendono praticare, salvo un non meglio definito ricorso alla capitalizzazione reale, in analogia con quanto avviene per la previdenza5.
Ad avviso di chi scrive, il paragrafo sulla sostenibilità del sistema sanitario consente di ricomporre, non senza qualche fatica, i passaggi chiave del Libro bianco.
In effetti, la centralità della persona (intesa come consumatore di prestazioni sanitarie), l’idea di un universalismo che deve fare i conti con la crisi economica, un welfare minimale che si concentra solo sulle priorità, la fiducia in un paziente in grado di fare scelte razionali, la capacità di definire costi standard indicativi di condizioni produttive efficienti, una nozione di Lea che si limita a elencare le prestazioni da garantire (prescindendo dalle evidenze scientifiche di efficacia e dall’appropriatezza) sono tutti pre-requisiti di un modello che nelle intenzioni del Ministero è composto da un sistema pubblico sempre più residuale e un sistema privato in crescita.
La soluzione prospettata poggia sull’idea che l’attuale sistema sia economicamente molto meno sostenibile del modello proposto. Qui sono necessarie due precisazioni. In primo luogo dobbiamo domandarci qual è il soggetto in capo al quale viene valutata la sostenibilità. Parliamo di finanza pubblica o delle generalità dei cittadini? È fuori discussione infatti che trasferire segmenti di spesa dal pubblico al privato riduce l’onere a carico della finanza pubblica, soprattutto nel breve periodo, ma non riduce la spesa per i cittadini. Anzi, la spesa aumenta, perché il mercato privato si espande, senza necessariamente aumentare il benessere del consumatore, vittima delle asimmetrie informative. L’unico effetto è l’aumento del mercato delle prestazioni sanitarie (oltre che dell’intermediazione finanziario-assicurativa).
Il paradosso del settore sanitario è infatti che il sistema privato, capace di generare forti incentivi a minimizzare i costi a livello micro, si trova a fronteggiare un grave problema di contenimento dei costi a livello macro, per la sua incapacità di controllare la quantità di prestazioni offerte. All’opposto, un sistema pubblico con vincoli di bilancio, ha successo nel contenere i costi a livello macro, ma ha problemi a livello micro a causa di inadeguati sistemi incentivanti (Williams, 2000). Sotto questo profilo non vi è dubbio che il Libro bianco sembra preferire la soluzione che minimizza i costi a livello micro e massimizza la spesa a livello complessivo. Il che, fra l’altro, consentirebbe al Governo di massimizzare i consensi sia all’interno dell’industria della salute sia nelle aree forti del paese.

Conclusioni
Concludendo, gli obiettivi della riforma possono essere riassunti in quattro semplici punti:
1. il “superamento della distinzione fra pubblico e privato”, elemento fondamentale del “welfare delle opportunità”, attraverso il ridimensionamento del pubblico e il riscatto del privato;
2. lo sviluppo di un sistema che “stimoli la responsabilità del singolo”: è l’idea della persona protagonista della propria salute;
3. lo “sviluppo di un sistema a più pilastri”, con un pilastro a “capitalizzazione reale” anche nella sanità e “nuove forme integrative di assistenza sanitaria e sociosanitaria”;
4. il riconoscimento del valore del “dono e della solidarietà”, anche rafforzando “gli strumenti di sostegno dello Stato” (quali le agevolazioni fiscali) in grado di promuoverne le straordinarie potenzialità (pag. 67).
Quattro punti che rilevano l’intenzione di puntare a un sistema completamente nuovo: di fronte alla malattia, gli italiani dovranno quindi imparare a potenziare le capacità individuali di risposta, sperare nella pratica della carità, acquistare costose coperture assicurative integrative e smetterla di pensare che il servizio pubblico sia in grado di fornire un parere più disinteressato del privato!

Bibliografia
Caritas Italiana e Fondazione Zancan (2008), Ripartire dai poveri. Rapporto 2008 su povertà ed esclusione sociale in Italia, Bologna, Il Mulino.
Department of health (1989), Working for patients, Her majesty’ stationery office, Hmso, London.
Dirindin N (1996), Chi paga per la salute degli italiani?, Bologna, Il Mulino.
Dirindin N (2009), Se la sanità diventa un esercizio teorico, www.lavoce.info/, 27 maggio 2009.
Fattore G (2009), Crisi economica, salute e sistema sanitario, Politiche sanitarie, 10 (2): 49-53.
Granaglia E (2009), Destra, sinistra e il welfare del ministro Sacconi, www.nelmerito.com, 15 maggio 2009.
Grilli R, Rebba V (2008), Spunti per le politiche sanitarie dal Libro verde sul futuro del modello sociale, Politiche sanitarie, 9 (3): 101-102.
Guerzoni L (a cura di) (2009), La riforma del welfare. Dieci anni dopo la “Commissione Onofri”, Bologna, Il Mulino.
Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali (2008), La vita buona nella società attiva. Libro verde sul futuro del modello sociale, Roma.
Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali (2009), La vita buona nella società attiva. Libro bianco sul futuro del modello sociale, Roma.
Ministero del lavoro, della salute e delle politiche sociali (2009), Glossario per un nuovo welfare, www.governo.it/ GovernoInforma/Dossier/libro_bianco/Glossario. Ultima consultazione: luglio 2009.
Mogyorosy Z, Smith P (2005), The main methodological issues in costing health care services. A literature review, Centre for health economics, The University of York, www.york.ac.uk/inst/che/pdk. Ultima consultazione: 3 luglio 2009.
Muraro G (2008), Alla ricerca del costo standard, www.lavoce. info/, 14 ottobre 2008
Toso S (2009), Pagine bianche sul libro bianco, www.lavoce. info/, 19 maggio 2009
Williams A (2000), Le riforme dei servizi sanitari perché l’ideologia è importante, Politiche sanitarie, 1 (1): 3-5.